DUE NOTE SU ALDO MORO
Moro, l’antifascismo e l’invadenza della politica
L’Avvenire ha pubblicato domenica, nella pagina culturale Agorà, il testo inedito di un discorso di Aldo Moro a Radio Bari, dei “primi mesi del 1944”, intitolandolo “Moro contro il fascismo ma senza vendette”. Moro, ventottenne professore, muoveva dal riconoscimento del desiderio popolare di un’epurazione intransigente degli elementi compromessi col fascismo: “Non può certo meravigliare che il popolo italiano, pur condotto per natura a perdonare e dimenticare e alieno da ogni ferocia, sia giunto a questo punto di esasperazione e di intransigenza”. Ma raccomandava che, quando fossero assunti, i provvedimenti fossero “misurati, giusti, realizzati soprattutto con la forza e con i limiti della legalità”, senza sostituire “alla tessera fascista una tessera antifascista”. “Che l’epurazione si debba fare prima o poi è una cosa secondaria. Quello che conta è vedere quel che debba intendersi per epurazione e se si debba essere attenti ad una umana e cristiana voce di comprensione o se si debba fascisticamente tirare diritto”.
Presentando il testo, e il primo volume digitalizzato delle opere dedicato agli “Scritti giovanili (1932–1946), Angelo Picariello scrive dell’ “Aldo Moro che non ti aspetti, icona dell’antifascismo e che tuttavia invita a tener ben presente la distinzione fra ‘fascista di tessera e fascista di fede’ per non cadere in eccessi manichei di segno opposto”. Non ne so abbastanza: conosco il discorso alla Costituente del marzo 1947 in cui Moro replicava a Roberto Lucifero, già partigiano monarchico e sempre monarchico sanfedista, il quale pretendeva che “la nuova Costituzione italiana fosse una Costituzione non antifascista, bensì afascista”. Diceva Moro: “Non possiamo fare una Costituzione afascista, cioè non possiamo prescindere da quello che è stato nel nostro Paese un movimento storico di importanza grandissima, il quale nella sua negatività ha travolto per anni le coscienze e le istituzioni. Non possiamo dimenticare quello che è stato, perché questa Costituzione oggi emerge da quella resistenza, da quella lotta, da quella negazione, per le quali ci siamo trovati insieme sul fronte della resistenza e della guerra rivoluzionaria ed ora ci troviamo insieme per questo impegno di affermazione dei valori supremi della dignità umana e della vita sociale”.
Tuttavia in quel ’44 la posizione di Moro era lontanissima da quella di “un’icona dell’antifascismo”. Se non fraintendo la ricostruzione che ne diede esemplarmente Renato Moro (suo nipote e principale studioso) in un convegno barese del 1998, nel ventennale della morte, già nel maggio 1944 Aldo Moro scriveva che “la formula ‘antifascismo’ aveva espresso, almeno per un momento, ideali capaci di farci vibrare e di raccogliere consensi unanimi”, ma poi si era isterilita “nel superficiale, nel vuoto, nel sospetto maligno, nella critica acre e non costruttiva, nella vendetta”. “L’Italia — scriveva ancora Moro, e mancava un anno alla Liberazione — che non fu mai fascista con sincero fervore di consensi, rifiuta oggi di isterilirsi in una insignificante e dispersiva posizione polemica e di riconoscersi, puramente e semplicemente, antifascista. Una tale qualifica negativa è, diciamolo pure con coraggio una volta, incapace di esprimere l’anima di un popolo che ha tanto sperimentato e sofferto nell’attesa di una verità più luminosa e di una vita più costruttiva e buona dopo il terribile smarrimento. Questa formula, ricca di palpiti appassionati ed umani, creatrice di pace, saldamente unificatrice delle coscienze degli Italiani, nella fase polemica ha perduto poi tutto il suo fascino e si è rivelata vuota, rettorica, dispersiva. Ci siamo trovati senza serii ideali di vita da sostituire alle grosse parole di ieri, e incapaci d’intesa. Ci siamo trovati poveri, stanchi, disorientati, come prima, come sempre purtroppo. E buon per noi che la irrefrenabile vita dello spirito abbia continuato a svolgersi sotterranea, riempiendo il vuoto che il nuovo artificio delle parole andava scavando nel vecchio vuoto restato incolmato. Quel tanto d’Italia che oggi è vivo, veramente vivo, è al di fuori di quella formula goffa e la sdegna”.
Commenta Renato M.: “Moro… muoveva dall’esigenza di discolpare il popolo italiano dal peso della responsabilità del consenso al fascismo… Sottolineò pertanto con forza la necessità assoluta di dare un giudizio equilibrato e non liquidatorio sul periodo fascista, se si voleva salvare la dignità morale e spirituale dell’Italia e degli Italiani e criticò anche con decisione ogni tendenza ad una epurazione”. La conclusione di Renato M. sul Moro del 1944 — e come lui il gruppo della “Rassegna” barese — era che la sua posizione fosse “di difficile riduzione ad una definita chiave politica”. Un punto sembra comunque contrassegnarla e far da contraltare allo scetticismo, per lo meno, sull’antifascismo, l’insistenza sull’autonomia della vita personale e sociale dalla riduzione alla politica dei partiti e all’invadenza dello Stato. Così, aprile 1944: “Noi non siamo così ingenui da credere che la struttura democratica, che sta per assumere il nostro paese, sia cosa perfetta. Il nostro volto politico sarà poco soddisfacente e genererà debolezze e favorirà il sorgere delle pretese altrui. Una cosa invece può essere piena in noi; lo svolgersi sotterraneo, profondo, originale della vita dello spirito. Quello svolgimento fecondo, il quale, ostacolato ma non impedito durante gli ultimi anni, rese umana e costruttiva la storia d’Italia in tempo fascista e fece sì che la nostra patria non finisse, a dispetto delle affermazioni degli antifascisti superficiali che vivono di esteriorità politica e non sanno riconoscere il travaglio sussistente dello spirito, operoso anche nell’oscurità e nella miseria”.
In questa posizione, come nella predilezione per il termine di “postfascismo” (evocato del resto citando Carlo Rosselli), non si può vedere un anticipo dell’anti-antifascismo dopo, e di nuovo oggi, rigoglioso, ma piuttosto una prudenza, una provvisoria affinità con il qualunquismo, un’esitazione sulla questione monarchia-repubblica, una distanza e una diffidenza dal “vento del nord”. Molto più interessante, e suggestivo, è vedere una drammatica congiunzione fra i due capi della vicenda di Aldo Moro. Dal giovane impegnato nell’associazionismo cattolico e restio all’ingresso nella Democrazia Cristiana (“l’approdo alla DC degasperiana per Moro, come per una larga fetta del cattolicesimo italiano — quella più giovane e meridionale –, fu tutt’altro che naturale, tutt’altro che scontato, e avvenne invece in ritardo e in modo assai ‘tortuoso’ — spesso determinato da una forte spinta delle autorità ecclesiastiche ad inserirsi nel nuovo partito”, tenacemente polemico “contro l’onnipervasività della politica, contro la politica come assoluto, considerata come il primo retaggio del fascismo, passato ora alla ‘mistica di sinistra’ ”), da quel giovane riluttante al Moro ultimo, delle lettere misconosciute e rinnegate, della DC da lui rinnegata.
Che è, se la mia lettura non è troppo forzata, un altro modo di distinguere Aldo Moro, come nel Pasolini dell’articolo delle lucciole, “cioè colui che appare (per un’enigmatica correlazione) come il meno implicato da tutti”, poi (poi!) ripreso da Leonardo Sciascia: “E appunto perché ‘il meno implicato di tutti’ destinato a più enigmatiche e tragiche correlazioni”. Il democristiano più importante, e, per un’enigmatica correlazione, il più estraneo.
La metamorfosi di Moro
Per la Piccola Posta di ieri avevo bisogno di controllare una citazione e ho ritrovato la copia più antica dell’Affaire Moro, quella di Sellerio 1978, con l’incisione di Fabrizio Clerici, che mi aveva regalato Leonardo Sciascia. Io scrivo delle note a matita in margine ai libri. Le note a matita, specialmente quando sono antiche, mostrano quanto poco si cambi nella vita, benché si invecchi. Vai a cercare una pagina perché ti è venuta un’idea, e scopri che ti era già venuta cinquant’anni fa. A pagina 60, accanto a una riga di una lettera di Moro a Zaccagnini con una frase terribilmente trattenuta ed evangelica — “In verità mi sento anche un po’ abbandonato da voi” — avevo scritto a matita, 43 anni fa, “Gregor Samsa”.
L’11 settembre del 2018 ero andato a Racalmuto per parlare di Sciascia a 40 anni dall’Affaire Moro. C’era una bella compagnia: Antonio Di Grado, Felice Cavallaro, il sindaco Emilio Messana. Ne ho un ricordo specialmente sentito perché ero venuto con Massimo Bordin, e quella fu l’ultima volta che lo vidi, e passammo un giorno e una sera tardi molto belle, poi lui partì all’alba perché aveva da fare, o forse perché non vedeva l’ora di tornare da Daniela.
Nella sala della Fondazione Sciascia, Massimo ironizzò da par suo sulle escogitazioni paranoidi e sulla proliferazione di commissioni sui misteri del caso Moro, opposte alla chiarezza del discorso di Sciascia. Io mi accontentai di riraccontare il legame fraterno fra Sciascia e Pasolini, che ispira le pagine d’apertura del libro. Aggiunsi una parte cui mi pareva di non aver mai pensato prima (ma c’era quel nome a matita del 1978) e che mi era stata suggerita dalla rilettura della Metamorfosi di Kafka, sulla quale avevo appena pubblicato un libro. Gregor Samsa, il commesso viaggiatore che si risveglia mutato in un grosso insetto disgustoso, sta nella sua camera come un recluso. A lungo, finché i suoi di famiglia si prendono cura di lui, soprattutto Grete, l’amata sorella, è uno scarafaggio, ma è ancora Gregor Samsa. Cederà quando saranno i suoi a misconoscerlo, a rinnegarlo. Proprio Grete, esasperata, griderà: Dobbiamo liberarcene. “Deve sparire, è l’unico mezzo, babbo. Devi soltanto cercare di liberarti dall’idea che egli è Gregorio. E’ stata la nostra disgrazia averlo creduto per tanto tempo. Ma come può essere Gregorio?… Non avremmo più fratello, ma potremmo continuare a vivere e a onorare la sua memoria”. E’ a questo punto che Gregorio Samsa, “finalmente”, muore.
Aldo Moro ebbe sempre l’amore straziato della sua famiglia, e la nominò tante volte nelle sue lettere come la sua vera, sola ragione di vita. La Democrazia Cristiana si era sempre proclamata tutrice della famiglia, ed essa stessa una “grande famiglia”: e da lei Moro fu disconosciuto. Certi capolavori letterari sono così forti da far credere di essere stati scritti proprio per l’avvenimento cui assistete attoniti, tanto tempo dopo. Una mattina Aldo Moro si svegliò, uscì di casa con la sua borsa, salì in auto e lungo la strada fu rapito mentre i cinque uomini della sua fidata scorta venivano uccisi, e fu portato in una cameretta chiusa e angusta. Continuò a essere un uomo, non diventò un insetto mostruoso, e però venne presto il momento in cui membri della sua famiglia democristiana e della famiglia degli italiani decretarono: “Non è lui! Dobbiamo smettere di pensare che quello che scrive le lettere sia Aldo Moro, nemmeno la grafia è la sua…”. Si arruolarono psichiatri, si raccolsero firme di ogni risma, onorevoli, intellettuali, “perfino un cardinale”, a certificare che non era lui, che lo disconoscevano. Si smette di resistere non quando si è mutati in uno scarafaggio, non quando si è rapiti e chiusi in un carcere del popolo, ma quando quelli che finora sono stati “i tuoi”, i tuoi amici, i tuoi seguaci, i tuoi adulatori, i tuoi beneficati, all’unisono certificano: “Non è più lui”. “Non è il Moro che abbiamo conosciuto” — firmato: gli amici di Aldo Moro. “Il vero Moro è morto!” Prima che i suoi assassini eseguissero il loro gerundio.
Capivo quella sera parlando a Racalmuto, capisco ora scrivendo, che l’accostamento di Gregor e Moro possa sembrare forzato, o addirittura scandaloso. Chiamerò a sostegno lo stesso Sciascia e il suo uso imprevisto della parola fatidica: “Certo, è scomodo si sappia che Moro ha sempre pensato così; che non sono state le Brigate rosse, con sevizie e droghe, a convertirlo alla liceità dello scambio di prigionieri tra Stato di diritto e una banda eversiva. Ma c’è rimedio: e nemmeno occorre tanto affaticarsi per applicarlo. I giornali indipendenti e di partito, i settimanali illustrati, la radio, la televisione: sono quasi tutti lì, in riga a difendere lo Stato, a proclamare la metamorfosi di Moro, la sua morte civile”.
Ecco: la metamorfosi di Moro.