La tortura, Bolzaneto, sesso e medicina

adriano sofri
19 min readJul 19, 2021

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E’ inevitabile vedere la prossimità e la distanza estrema fra la tortura e l’amore, per un verso, e fra la tortura e la chirurgia, per un altro. Può suonare seccante, ma tra i rapporti sessuali leciti e la tortura, così come fra la tortura e la cura medica, la differenza, “in ultima istanza”, sta nel consenso o nell’imposizione. Può trattarsi perfino degli stessi atti: un ingrediente rilevante dello scambio sadomaso è la simulazione concertata di una tortura. Nell’antico supplizio il tormentato si chiamava “paziente”. (E’ impressionante il ruolo di medici e infermeria a Bolzaneto).

La sofferenza fisica, il dolore corporale, non sono più elementi costitutivi della pena. Che se ne vendica incaricando altri, i poliziotti prima, i carcerieri poi, quelli che si sobbarcano al lavoro sporco, “al nero”, nel buio opposto al luccichio del supplizio. Per compensarli del sacrificio non bastano paghe e riconoscimenti privati: c’è bisogno del piacere. Il boia antico dello spettacolo del supplizio non ha bisogno di compiacersi della macelleria, e anzi se ne può dire disgustato, fa il suo lavoro. I torturatori al nero non lo farebbero senza una vocazione: sono volontariato mal pagato. Che cosa vuoi fare da grande? Il chirurgo di corpi che non vogliono. Nella pena pubblica si anestetizzava (lo si fa ancora a Riyad), nella sofferenza inflitta negli scantinati si acuisce il dolore.

“Nel luglio dell’anno 2001 nella città di Genova si teneva il vertice fra i Capi di Stato degli otto Paesi più industrializzati, detto ‘vertice del G8’.

Si aveva ragione di prevedere un numero elevato di arrestati, che, sulla base di quanto accaduto a Göteborg, veniva quantificato intorno alle 300–350 persone. Fra i luoghi designati ad accogliere gli arrestati –esclusi i due carceri genovesi, per la fondata previsione che diventassero bersaglio di manifestanti- c’era la Caserma “Nino Bixio” di Bolzaneto della Polizia di Stato: vi sarebbero confluiti gli arrestati della Polizia e della Guardia di Finanza. Gli arrestati dei Carabinieri sarebbero stati condotti alla Caserma di Forte San Giuliano. Ma dopo il 20, e la morte di Carlo Giuliani, i Carabinieri vennero richiamati dal servizio di ordine pubblico, e arrestati e fermati vennero tutti portati a Bolzaneto”.

Anna Julia K. La portano a Bolzaneto da un ospedale e ha la mascella e i denti rotti. Gli agenti la insultano… Alcuni indicano la sua bocca e poi ridono.

La fanno stare in piedi, faccia al muro e mani contro il muro; le portano via gli assorbenti… Al passaggio nel corridoio subisce calci. In cella deve stare, nonostante le ferite, in piedi, faccia al muro e gambe divaricate e riceve calci per farle divaricare le gambe… Le ferite alla bocca le sanguinano… La portano in infermeria, il medico la fa sdraiare su un lettino e le chiede che cosa sia successo, lei un po’ a gesti e un po’ a parole fa capire di avere ricevuto un colpo di manganello, lui prende un manganello, lo avvicina alla sua bocca e inizia a cantilenare “Manganello, manganello” mentre tutti ridono; il medico ha più di quarant’anni ed è grasso (è il medico Toccafondi)… In bagno deve tenere la porta aperta; la prima volta mentre è sulla turca che sta espletando i suoi bisogni un agente uomo le dà una spinta e la fa cadere… La portano in infermeria; deve spogliarsi e girarsi su sé stessa tre volte alla presenza anche di agenti uomini.

La fonte primaria è il processo penale svoltosi a Genova e concluso da una prima sentenza a maggio del 2007. La sentenza della Cassazione è venuta nel 2013, quella della Corte europea dei diritti dell’uomo nel 2017: tutto in rete. (Il miglior commento in E.Zucca, La decisione della Corte Edu su Bolzaneto, un altro grido nel deserto, https://www.questionegiustizia.it/articolo/la-decisione-della-corte-edu-su-bolzaneto_un-altro_22-11-2017.php). Non uno dei funzionari e degli agenti condannati ha trascorso un’ora in galera, molti furono promossi.

Si può ascoltare la registrazione delle udienze a Radio Radicale. E’ più rivelatore che leggere gli atti. Volete un esempio minimo, ma che mi ha colpito? La signora Patrizia Petruzziello, Pubblico Ministero al processo per Bolzaneto, nella sua requisitoria, menziona più volte il nome di Che Guevara, perché gli agenti lo avevano a loro volta citato per schernire gli arrestati. Ebbene, la signora Petruzziello pronuncia “Ke” invece che “Ce”. Mi viene da sorridere al pensiero che qualcuno trovò il modo di chiamare “toga rossa” una giovane donna che non aveva alcuna dimestichezza col soprannome del dottor Ernesto Guevara.

Bolzaneto succede prima dell’11 settembre, prima di Guantánamo, prima di Abu Ghraib. Prima di tutto.

“La tortura funziona, ok ragazzi? Sapete, ci sono questi tipi — ‘la tortura non funziona’. Credetemi, funziona. E il waterboarding è una forma minore. Alcuni dicono che non è davvero tortura. Ammettiamo che lo sia. Ma mi hanno fatto la domanda: che ne pensa del waterboarding? Assolutamente d’accordo. Ma dovremmo andarci giù molto più pesanti che col waterboarding. Credetemi, dovremmo andarci giù molto più pesanti. Siamo in pericolo”. (Il candidato Donald Trump, 17 febbraio 2016).

Nel 2011 Tobias Kelly, dell’università di Edinburgo, scrisse un saggio intitolato “Di che cosa parliamo quando parliamo di tortura” che cominciava così: “La Biblioteca del Congresso ha 1100 volumi con la parola ‘tortura’ nel titolo. Circa la metà sono stati scritti dopo il 2001”. Oggi, alla voce “Torture” corrispondono su Google 229 milioni di risultati. A “Tortura” 35 milioni e mezzo. (Un milione e mezzo alla canzone di Shakira. “Ay, amor, me duele tanto / Ay, amor, fue una tortura perderte”).

Nella primavera del 2013, una sequenza drammatica di scioperi della fame a Guantánamo scosse l’opinione. Il presidente Obama era da pochi mesi al suo secondo mandato. All’inizio del primo, il 22 gennaio del 2009, aveva firmato l’ordine esecutivo che fissava la chiusura di Guantánamo entro un anno. E’ ancora aperta, e Putin l’ha appena rinfacciato a Biden. Ha 40 detenuti, ne aveva toccati 779 nel 2001.

Il New York Times pubblicò la lettera di un detenuto yemenita, seguita da centinaia di commenti. Uno diceva: “Io concordo col senatore McCain, che fu lui stesso vittima di tortura. Quando un altro senatore gli disse: ‘Perché dovremmo preoccuparci di questi terroristi?’, McCain replicò: ‘Non si tratta di chi sono loro, ma di chi siamo NOI. Noi siamo gli Stati Uniti d’America, e gli Stati Uniti d’America non torturano la gente’.”

Il prigioniero, 35 anni, descriveva il tormento dell’alimentazione forzata attraverso il sondino nasogastrico. “Sono detenuto a Guantánamo da 11 anni, non ho ricevuto alcuna imputazione, non ho avuto alcun processo… Sostennero che fossi una ‘guardia’ di Osama bin Laden. Nemmeno loro sembrano crederci più… Non dimenticherò mai la prima volta che mi hanno infilato il tubo nel naso. Mi legano alla sedia due volte al giorno… Mi hanno messo un catetere, un’azione dolorosa, degradante e non necessaria… Durante una nutrizione forzata l’infermiera ha spinto sbrigativamente il tubo in profondità dentro il mio stomaco”. Nel 2014 il rapporto del Senato sulle “tecniche di interrogatorio rafforzate” della Cia descrisse modi di sodomizzare i prigionieri chiamati “nutrizione e idratazione anale non medicalmente autorizzata”.

In quell’aprile 2013, a Zurigo, un carcerato comune, svizzero, 32 anni, morì nell’ospedale in cui era stato trasferito dopo uno sciopero della fame iniziato a gennaio. Aveva rifiutato ogni intervento medico, e la sua volontà era stata riconosciuta legittima.

Guantánamo tiene forzatamente in vita persone che considera nemiche. Alla rovescia che nella pena di morte, li condanna alla pena di vita, per così dire. “Siamo così numerosi a digiunare ora, che non ci sono abbastanza operatori sanitari qualificati per le nutrizioni forzate. Alimentano le persone in continuazione per tenergli dietro”. Essendo i digiunatori a oltranza arrivati al numero di 100 su 166, furono fatti affluire 42 nuovi medici e infermieri per far fronte all’emergenza. 100 corpi legati mani e piedi ai giacigli o alle sedie, e cinquanta medici e infermieri che corrono dall’uno all’altro a spingere a forza il sondino nei 100 nasi e a infilare l’ago nelle 100 mani, una catena di montaggio della sopravvivenza e di smontaggio della vita e dell’umanità.

I combattenti “kamikaze” avevano inventato su larga scala l’arma della propria morte. Come si può intimidire e reprimere chi non ha paura di morire, e anzi vi aspira? L’alternativa di quei prigionieri senza processo e spesso senza imputazioni non è fra la vita e la morte: è fra la morte e la sopravvivenza non voluta. Il suicidio è vietato, anche quel più disperato e tenace suicidio che consiste nel lasciarsi morire. Chi ritenga di avere un’obiezione insuperabile al diritto delle persone a suicidarsi, il diritto riconosciuto a Zurigo (e a Bobby Sands e i suoi nove compagni nelle prigioni inglesi, e agli innumerevoli oggi nelle celle turche), ha qui un caso concreto col quale misurare l’intransigenza.

Alla fine, a mani nude e corpi esausti, quei prigionieri dell’aprile 2013 si ribellarono contro un trasferimento da un dormitorio comune a celle separate. La ribellione fu sedata a colpi di “proiettili non letali”.

“- È morto? — chiese Kammamuri spaventato.

- No, non è che svenuto, rispose Tremal-Naik.

- Bisogna andar cauti, padrone. Se ci muore prima che abbia confessato, è una grande disgrazia.

Tremal-Naik, pazzo d’ira e di disperazione, tornò ad afferrarlo per trascinarlo accanto al fuoco. Kammamuri intervenne.

- Padrone, — gli disse arrestandolo, — quest’uomo non può subire una seconda tortura e morrà. Il fuoco è insufficiente a farlo parlare, proviamo il ferro.

- Cosa vuoi dire!

- Lascia fare a me; parlerà, lo vedrai.

Il maharatto passò nella stanza attigua e poco dopo ricomparve portando una specie di trapano alla cui estremità aveva applicato due spiragli opposti, d’acciaio temperato, con due punte, lontane l’una dall’altra, un centimetro.

- Cos’è quella roba lì? — chiese Tremal-Naik.

- Un cava stoppacci, — rispose il maharatto. — Ora mi vedrai adoperarlo e ti giuro che nessun uomo, per quanto sia forte e caparbio, può resistere a simile prova. I maharatti se ne intendono”.

Nell’educazione maschile del dopoguerra teneva una parte rilevante, difficile da figurarsi oggi, l’aspettativa di una prova che misurasse il coraggio fisico, la lealtà, la fedeltà all’ideale e alla propria comunità. Nel mio caso, prima che alla Resistenza, quell’educazione era improntata al Risorgimento e all’irredentismo, e a modelli di abnegazione dal segno politico indeterminato: i ragazzi della via Pal, per esempio. Si sarebbe stati dignitosi e fieri nelle mani del nemico? Si sarebbe avuta la forza di resistere, e di non tradire? Come il piccolo Nemecsek nella vasca dei pesci rossi?

Avevo 16 anni quando uscì per Einaudi “La tortura” di Henri Alleg. Il titolo francese era più bello e antico, “La Question”. Alleg (Harry Salem) era un giornalista, di genitori ebrei russo-polacchi, algerino d’adozione, anticolonialista e comunista. Nel 1957 fu preso dai paracadutisti francesi ad Algeri, dove viveva in casa di un giovane amico, il matematico Marcel Audin. Audin morì per le torture in pochi giorni: un incidente del mestiere. Alleg fu torturato a lungo, elettroshock, ustioni, iniezioni di penthotal, funi, l’annegamento provocato — il waterboarding. “Dall’altro lato del muro, nell’ala riservata alle donne, ci sono delle ragazze di cui nessuno ha parlato: Djamila Bouhired, Elyette Loup, Nassima Hablal, Melika Khene, Lucie Coscas, Colette Grégoire e altre ancora: denudate, battute, insultate da torturatori sadici, hanno subito anche loro l’acqua e l’elettricità. Tutti qui sanno del martirio di Annick Castel, violentata da un paracadutista, che, convinta d’essere incinta, non chiedeva più che di morire”.

Minacciarono di far parlare sua moglie, di rivalersi sui figli. Riuscì a non cedere. Trasferito in carcere da El Biar, dalla casa delle torture, scrisse di nascosto il suo resoconto, sulla carta igienica. Uscì in Francia nel 1958 e fu subito vietato: la parola tortura era ancora tabù. Riuscì in Svizzera con la prefazione di Sartre. Alleg è morto il 17 luglio del 2013.

Valerie Vie (Perpignan 1966). E’ la prima arrestata del G8; ha violato la zona rossa al varco di Piazza Dante. E’ ricordata per il suo atteggiamento orgoglioso ed altero… le mostrano un foglio scritto in italiano che non capisce e, alla sua richiesta di traduzione, insistono con le parole: “firma”; la riportano in cella, poi la riportano nella stanza per altre due volte; fanno ancora pressione per farla firmare, le danno colpi a mano aperta sulla nuca, le mostrano le foto dei figli sul passaporto e le dicono che se non firma non rivedrà i figli. (Delle minacce è autore con altri l’ispettore Massimo S.; quello che le mostra le foto dei figli è l’assistente della Polizia di Stato Maurizio Q.).

Diana F. (Milano 1982). Insulti del tipo “Troie… puttane”. Gli agenti fanno gridare: “Viva il Duce”… In infermeria la fanno spogliare; le fanno buttare via gli orecchini e la maglietta con una scritta ed una stella rossa, e un uomo con camice bianco la canzona dicendole che era una maglietta delle brigate rosse.

(La maglietta di F. è la stessa indicata dagli infermieri Poggi e Pratissoli come uno dei trofei del Dottor Toccafondi).

Si prova a stare nella pelle nuda e scorticata di un torturato. Di uno che non delira, che ha ragione di aspettare in ogni istante del giorno e della notte un persecutore cattivo e arbitrario. Il gioco degli aguzzini si addestra nel rapporto che gli umani instaurano con gli animali catturati e tormentati. Ho una prima obiezione alla definizione canonica della tortura: che debba avere uno scopo. Non riesco a credere che la tortura sia sempre un mezzo, per carpire notizie o confessioni, per salvare vite minacciate. La tortura basta a se stessa. A Bolzaneto — o in tante circostanze analoghe di luoghi chiusi in cui corpi di persone si trovano in balia d’altri — violenze, minacce e umiliazioni non si prefiggevano alcun fine estrinseco, tantomeno di ottenere confessioni. Dunque non vi si potrebbe propriamente parlare di tortura? Come spiegare, come solo immaginare, la brutalità o la distrazione investite da un’intera catena di funzionari dell’ordine, della sicurezza e della salute pubblica nella distruzione del corpo di Stefano Cucchi? Per la colpa eventuale di un piccolo consumo, di un piccolo spaccio?

La tortura è il piacere furioso che prende la mano di chi ha in propria balia un corpo altrui, il suo simile denudato. Il torturatore che abbia infierito, da solo o in gruppo, sul proprio ostaggio, temerà che esso torni alla luce. Non potrà sopportare che cammini nel mondo qualcuno che conosca un simile segreto di lui. E’ per questo che in certi stupri di banda le torture più efferate prendono il sopravvento sulla stessa bruta soddisfazione sessuale e si concludono con l’assassinio. Nella tortura il fantasma della sessualità entra sempre violentemente. Non importa che l’azione stessa della tortura e il luogo in cui si compie coinvolgano attori vittime o spettatori di sesso diverso: è ovvio che il tormento inflitto a un corpo non ha bisogno di essere eterosessuale. Si vuole espropriare l’altro del corpo, e spadroneggiare su esso fino alla sua struttura più intima, che è la personalità sessuale. La tortura predilige la mortificazione fino all’annichilimento del corpo nelle due forme, strettamente legate, del tormento sessuale e del tormento delle funzioni corporali escretorie –urinare, defecare. Si tratta, in proporzione, della stessa materia degli scherzi e delle persecuzioni nonniste di caserma e di goliardia. Materiale eminentemente maschile, anche quando (come ad Abu Ghraib, come a Guantánamo, come a Bolzaneto) non manchino donne a prendervi variamente parte.

Sappiamo abbastanza da rinunciare senza tante storie all’illusione della “inspiegabilità” di comportamenti abominevoli, e all’ “indicibilità” e altre categorie più o meno mistiche; ma anche da non doverci rassegnare all’ineluttabilità della trasformazione di ogni creatura umana in un volonteroso, gregario, spietato e ottuso carnefice del proprio prossimo di turno. La banalità e la mostruosità di Bolzaneto stanno l’una accanto all’altra, si toccano e si confondono. E non sembri troppo grossa, o addirittura oltraggiosa, la menzione del lager: si leggano le imprese di qualche protagonista dell’estate genovese del 2001 –di quel medico capo, per esempio- e ci si chieda di che cosa sarebbe stato capace, se le circostanze gli fossero state propizie…

Taline E. (Marbach, 1983). Deve chiedere più volte di essere accompagnata in bagno ma un agente le dice di “farsela pure addosso”… L’agente donna che l’accompagna (è l’agente Barbara A.), quando lei ha finito di espletare i suoi bisogni, le fa picchiare la testa contro il muro, spingendola diverse volte contro le pareti del bagno; un agente uomo le ordina di lavarsi le mani e frattanto la percuote con dei calci nel sedere.

Tra l’una e le due di notte un agente in borghese la conduce nell’ufficio trattazione atti, dove ci sono cinque persone tutte in borghese, di cui uno seduto ad un tavolo (è l’ispettore Antonello G.); quest’ultimo subito le chiede se è incinta e alla risposta negativa un altro le dà un pugno nella pancia; l’uomo seduto le mostra un foglio e le dice di firmare, senza consentirle di leggere; lei si rifiuta e gli altri uomini in piedi le tolgono gli occhiali e iniziano a picchiarla sulle tempie; lei si rifiuta più volte, ad ogni rifiuto la picchiano finché non cade a terra; mentre è a terra le tagliano tre ciocche di capelli.

Il Dipartimento di Stato Usa pubblica ogni anno il suo prezioso Human Rights Report. Però, dal pulpito di Guantánamo. Lo scotto che pagano alla supposta convenienza di quel carcere extraterritoriale ed extralegale. (Quanto alla Cina — la Cina! — pubblica per ritorsione un suo “Human Rights Record of the United States”: il cui pezzo forte è naturalmente Guantánamo Bay).

Quando l’Isis trasmise i suoi sofisticati video di decapitazioni e di roghi e squartamenti, ebbe cura di far indossare alle vittime le stesse uniformi arancioni.

Chiara G. (Genova, 1980). Insulti anche dalla finestra: “puttana, vieni a farmi un bocchino”. Viene colpita lungo il corridoio con schiaffi alla nuca e colpi allo stomaco… Sente cantare la filastrocca: “Uno due tre evviva Pinochet, quattro cinque sei a morte gli ebrei, sette otto nove il negretto non commuove”.

Danilo Manganelli (La Spezia, 1977). Riporto per esteso il cognome perché i suoi aguzzini ne hanno fatto tesoro, nel seguente modo: “In corridoio facendo riferimento al suo cognome un agente gli dà un colpo sulla nuca con il manganello… In infermeria mentre è nudo una persona in divisa fa battute legate alle piccole dimensioni del suo membro con riferimenti analogici al suo nome: ‘Però manganello mica tanto’.”

Non resta che ricordare il nome del vicecapo della Polizia all’epoca dei fatti (poi capo, è morto nel 2013): Antonio Manganelli.

Nel 1997 Panorama pubblicò testimonianze e foto di torture compiute nel 1993 da militari della “Folgore”, in missione di peace-keeping in Somalia. Un maresciallo e due commilitoni applicavano ai testicoli di un cittadino somalo incappucciato, Aden A., gli elettrodi ricavati da un telefono da campo, al cospetto di ufficiali; altri calpestavano un somalo legato a terra e denudato. Le foto erano di un militare, Michele P.

“…Torniamo alle immagini più raccapriccianti, quelle in cui si vede un somalo nudo, disteso per terra. Cosa stanno facendo al prigioniero?

Stanno applicando degli elettrodi ai testicoli del somalo. La corrente è prodotta da un generatore a manovella. /…/ Prima li avevano applicati alle mani, ma con scarsi risultati. Poi un ufficiale medico consigliò di applicarli ai testicoli perché contengono liquidi e conducono meglio la corrente”.

Un servizio successivo documentava lo stupro di una giovane somala, Dahira S., legata a un blindato. Anche qui le foto erano di un militare, Stefano V.

“Prima abbiamo cominciato a dare pizzicotti e a toccare” — racconta S.

La toccavate sotto la gonna?

“No, fin lì non si arrivava perchè puzzava, era sporca”.

Poi come siete andati avanti?

“Qualcuno aveva in mano una bomba illuminante. E ha detto: mettiamola qua, mettiamola su, mettiamola giù. Attacchiamo la ragazza al carro armato! Abbiamo cominciato a spingerla, da dietro la tenevano. L’hanno legata al mezzo blindato con una corda alle gambe. Non contento qualcuno, dopo un po’, ha spalmato sulla bomba della marmellata. Per farla entrare meglio”.

Ed è entrata?

“Sì, è entrata. Esattamente. Lei urlava e si dimenava. Non tanto per il dolore fisico, forse, ma perché non voleva”.

Invece i militari cosa dicevano?

“Ridevano. C’era tanto casino. Più che un gioco sessuale era un far qualcosa”.

La verità fu appurata in varie sedi, compresa una commissione presieduta da un giurista e galantuomo come Ettore Gallo. Nessuno dei responsabili ebbe a pagare. Episodi analoghi si ripeterono. Ho ricordato questi per una dichiarazione di Mino Andreatta, allora ministro della Difesa. Andreatta, che aveva gran dimestichezza con l’università, accostò le denunce dalla Somalia agli “angoli di sadismo e di perversione che possono permanere in ogni corpo collettivo, dall’università alle gang giovanili”. Si scatenò un putiferio: ma aveva ragione. “Bisogna che queste cose siano spazzate via anche nei loro atteggiamenti seminali, anche nella goliardia e nel nonnismo. Non è della società civile questa prevaricazione sui più deboli, queste perversioni applicate con la forza di gruppo. Intollerabili”.

“Una delle cose che turbarono di più l’opinione pubblica fu che le foto di Abu Ghraib avevano quasi tutte un’aria goliardica”. (Il Post, 28 aprile 2014).

A Bolzaneto, i rappresentanti della Pubblica accusa, Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati, sottolineano il segno peculiare di umiliazione e violenza legata al sesso e alle elementari funzioni corporali.

“I detenuti al loro arrivo subivano una serie di condotte vessatorie ed umilianti: percosse, minacce, sputi, risate di scherno, urla canzonatorie, insulti anche a sfondo politico e, in casi più limitati e soprattutto per le donne, anche a sfondo sessuale….

Per le persone arrestate in esito alla perquisizione presso la scuola Diaz nella notte tra il sabato e la domenica si aggiungeva una sorta di “etichettatura” costituita da un segno che veniva apposto con un pennarello sul volto o sulla mano, come una sorta di “marchio” per le bestie.

…Chiunque si spostasse dalla posizione obbligata veniva percosso: nelle varie parti del corpo o sulle gambe, con schiaffi pugni o calci, con guanti o con manganelli, talvolta anche sui genitali; frequenti i colpi nelle gambe per farle divaricare maggiormente; molte volte colpi alla nuca dei fermati, per far così sbattere loro la testa contro il muro…

…continui insulti e frequenti minacce: frasi volgari, minacce e offese a sfondo sessuale soprattutto per le donne

Alcuni hanno testimoniato di essere stati costretti a fare il saluto fascista, altri addirittura a fare il “passo dell’oca”, altri ancora a gridare “Viva il duce”, “Viva Mussolini”, “Heil Hitler”. Molti hanno ricordato riferimenti ad Auschwitz, ai lager e all’antisemitismo.

Frequenti erano le battute offensive rivolte ai detenuti mentre erano nudi per la perquisizione e quindi in situazione di evidente disagio. Molte donne dovevano spogliarsi e rimanere nude anche in presenza di agenti uomini; e alcune fra queste hanno testimoniato di essere state costrette a questa situazione per un tempo lungoE così anche l’infermeria diventò un’altra tappa del percorso di umiliazione.

Allo stesso modo persino una delle più elementari esigenze, quale l’espletamento dei bisogni fisiologici, divenne pretesto e occasione per nuove ed ulteriori vessazioni. La riservatezza che dovrebbe naturalmente accompagnare questi atti era regolarmente violata. I detenuti, dopo essere stati accompagnati in bagno con le modalità descritte, erano costretti ad espletare i loro bisogni con la porta aperta, spesso percossi anche nelle parti intime ed esposti a commenti umilianti degli agenti.

Per le detenute poi costituì ulteriore umiliazione la mancata disponibilità di assorbenti igienici per il ciclo mestruale; molte donne hanno testimoniato di essere state costrette ad usare brandelli di vestiti o di indumenti e fogli di giornale, e altre ancora hanno dichiarato di essere state ulteriormente derise al momento della richiesta.

Alcuni detenuti hanno dichiarato di aver dovuto attendere molto tempo — dopo la richiesta — prima di essere accompagnati in bagno; altri ancora di non averlo neppure richiesto per la paura derivante o dall’ascolto delle grida di dolore dei ragazzi che venivano accompagnati in bagno, o dai racconti delle percosse ricevute da parte di coloro che tornavano. Alcuni, perciò, i casi di persone che hanno subito l’umiliazione di doversi urinare addosso, e di rimanere, poi, sporchi…

Se anche non sono stati segnalati casi di violenza sessuale, tuttavia molti sono stati coloro che hanno ricordato di avere subito minacce di violenza sessuale, talvolta effettuate anche con modalità ingiuriose e con riferimento ad oggetti evidentemente allusivi (manganelli, bastoni ecc). Più frequenti tali minacce erano ai danni delle donne; spesso erano effettuate, per uomini e donne, nei momenti di maggiore disagio personale quali ad esempio durante la perquisizione in infermeria nudi”.

Vietato l’ingresso agli estranei ai lavori –c’è scritto sulla porta della stanza della tortura.

Luis Alberto (1972). Viene portato in infermeria… la persona con camice bianco è grasso, sui cinquant’anni; gli fa alzare le braccia come per visitarlo e gli agenti in divisa lo colpiscono prima con un forte pugno al torace e poi con altri colpi in altre parti del corpo mentre la persona con il camice bianco ride… lo mettono poi sul lettino medico e lo colpiscono di nuovo tutti, compreso quello con il camice, con pugni al torace. (L’agente che lo colpisce al costato è Alfredo I., il medico è Aldo A.)

Agenti in divisa grigia lo portano in bagno anche se lui non lo chiede; lo mettono davanti al gabinetto, gli fanno abbassare i pantaloni e gli dicono in spagnolo “Mea mencon” (che significa “Piscia finocchio”) e contemporaneamente gli fanno il gesto di sodomizzarlo con un piccolo manganello a forma di “T”, con il quale gli danno poi colpi nella parte interna delle cosce.

Le violenze di ogni genere e autori perpetrate nelle strade di Genova nei giorni del G8 hanno avuto moltissime migliaia di testimoni, e sono state fissate da una sterminata documentazione foto e cinematografica e televisiva. Non è successo per la caserma di Bolzaneto, nè per l’irruzione alla scuola Diaz. (E’ appena successo a Santa Maria Capua Vetere, per un incidente sul lavoro, diciamo). Rendere “trasparenti” i luoghi chiusi è un compito decisivo, che si tratti delle galere, dei manicomi, dei centri di reclusione “transitori”, delle caserme, dei “centri di accoglienza”; e dei luoghi di lavoro, quando adottino discipline mutuate da modelli militareschi, e anche delle case private, quando vi regni la violenza patriarcale, al riparo della supposta saggezza per cui i panni sporchi si lavano in famiglia. A Bolzaneto non un solo cittadino terzo –un garante dei diritti, un esponente del brulicante mondo dell’informazione, un avvocato, nemmeno un prete, in un paese dove, a ogni buon conto, un prete non manca mai- varcò la soglia della caserma. (Venne un ministro della giustizia, leghista, vide e fece come se non avesse visto).

Il richiamo alla tortura era venuto dapprima dal P.M. nel processo di primo grado per la Diaz, Enrico Zucca; e fu il fondamento del benemerito ricorso del signor Cestaro alla CEDU, che ne sancì la piena ragione. Nato nel 1939, Cestaro aveva incarnato la violenza patita dalle 93 persone che si trovavano nella scuola Diaz, autorizzate a trascorrervi la notte. Pestati, arrestati tutti, ricoverati in ospedale in 62 (3 in prognosi riservata, uno in coma). Alcuni furono direttamente tradotti alla caserma di Bolzaneto, dove l’incubo si sarebbe perfezionato. Gli agenti impiegati alla scuola Diaz, quella notte, furono almeno 500. Spalle al muro e mani alzate, Cestaro era stato percosso bestialmente, riportando fratture (dell’ulna, dello stiloide, della fibula e di alcune costole) per le quali ha affrontato nel tempo molti interventi e riportato conseguenze durevoli. Al danno fisico si era aggiunto il trauma di vedersi aggredire furiosamente da uomini dai quali si sarebbe aspettato d’essere protetto e rispettato.

Giuseppe A. E’ stato ferito in via Tolemaide, e prelevato al pronto soccorso dell’Ospedale San Martino. Ha un’artoprotesi all’anca, che gli provoca difficoltà a tenere la posizione imposta. In questa posizione gli sputano e lo picchiano con pugni, calci, manganellate e colpi di casco; volutamente lo colpiscono sulle ferite. A un certo punto si avvicina un agente della Polizia di Stato, in mimetica blu, più alto di lui (che misura 1,80) e molto più robusto (è l’agente di polizia Massimo Luigi P.): gli prende improvvisamente la mano, gli allarga le dita con le due mani e tira violentemente le dita divaricandole, così spaccandogli la mano; lui sviene dal dolore. Dopo circa dieci minuti, un quarto d’ora, lo portano, sorreggendolo, in infermeria dove lo denudano e lo fanno sdraiare su un lettinoGli cuciono la mano senza anestesia. Ha male ma gli dicono di stare fermo perché se si muove gli daranno il resto. Gli fanno mordere uno straccio. Poi lo portano in una cella dove deve stare in piedi, faccia al muro, gambe divaricate e fronte appoggiata al muro; e lo colpiscono con schiaffi. Ha freddo.

(Giuseppe A. riportò, come certifica il medico legale, una “ferita lacero-contusa alla mano sinistra, dalla quale derivò una malattia della durata di oltre quaranta giorni con indebolimento permanente dell’organo della prensione”).

La tortura è il tradimento dei potenti che si proclamano al servizio della legge: tradiscono, procurandosi negli interstizi il piacere infame del dominio sui corpi, della vivisezione. Ha due categorie di specialisti (è il punto debole della rivendicazione che la vuole riconosciuta dal codice solo per chi abbia un pubblico potere): i poliziotti, e i maschi padroni delle loro donne. Sono i due pilastri dell’ordine, nella famiglia, e nello Stato.

Jeannette Sybille D. Arriva da un ospedale; ha la mano destra fratturata ed ingessata, e lividi alla mano sinistra… Il lunedì mattina viene nuovamente portata in infermeria dove si deve spogliare; mentre è nuda la fanno girare su se stessa più volte mentre il medico ride.

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