Ridiscutiamo della strage di Piazza Fontana, di Pinelli, di Calabresi, usando il nuovo libro di Giacomo Pacini su Federico Umberto D’Amato,“la spia intoccabile”.

adriano sofri
38 min readMay 12, 2021

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Giacomo Pacini ha 44 anni, è grossetano, studia storie contemporanee. Dieci anni fa aveva pubblicato un primo libro sugli Affari Riservati, “Il cuore occulto del potere” (Nutrimenti). Ci è tornato ora, con una documentazione più esauriente (non esaurita: sbucano carte in questa storia): “La spia intoccabile”, sottotitolo: “Federico Umberto D’Amato e l’Ufficio Affari Riservati”. (Einaudi, pp.XX-268). D’Amato (1919–1996) è stato il padrone non incontrastato — nessun mestiere è così accanitamente pieno di rivalità come quello di spia — degli affari sporchi italiani, e in particolare degli Affari Riservati, il potente servizio segreto di fatto, dipendente dal Viminale, e non di rado incline a fottersene della dipendenza dal ministro e dal governo, come dell’obbligo a trasmettere alla magistratura le notizie di reato. In particolare, l’UAR aveva proprie squadre in ogni provincia — a Milano, negli anni delle bombe, la più famosa, la Squadra 54, agli ordini del maresciallo Alduzzi, “il migliore” — e avocava alla bisogna il controllo degli Uffici Politici delle Questure. Se non il cuore, le interiora corporis dello Stato.

Io e il capo degli Affari Riservati

Cominciamo dal tema piccante, scottante, come preferite. Nel 2007 raccontai, in due lunghe puntate successive sul Foglio (nella prima c’era solo un accenno), di aver incontrato una sera D’Amato. Non avevo altra ragione per farlo, tanti anni dopo, se non l’insofferenza (ce l’ho ancora) per una ricostruzione pubblica degli anni ’60-’70 che dimenticava generosamente a quale punto di cinismo, spietatezza, violenza e imbecillità si fosse spinto allora lo Stato italiano in tanta parte delle sue istituzioni e dei suoi uomini. E l’ipocrisia della ricostruzione pubblica e il ricorso rinnovato a una violenza statale squisitamente fascista (Genova 2001 fu una rivelazione ributtante) tornavano a indurre qualche giovane nella tentazione di una violenza “giusta”.

Intanto, ripubblico i miei due articoli …

LETTERA A UN GIOVANE APPRENDISTA ASSASSINO
Il libro di Mario Calabresi, i figli delle vittime, le figlie di Pinelli. Quella volta che lo stato mi propose di uccidere in combutta con lui

di Adriano Sofri — Il Foglio, 26 maggio 2007

Caro ragazzo, che ti stai preparando a combinarla grossa in qualche stanza con le tende tirate. O hai già deciso di passare ai fatti, e allora hai una sola possibilità: fermarti sull’orlo. Se non lo farai, ti mostro che cosa sarà di te. Nello specchio di quelli che sono venuti prima. Non è vero, non crederci, che fossero migliori. Erano come te. Ma neanche peggiori. Pochissimi di loro direbbero in pubblico che lo rifarebbero, non uno lo direbbe a se stesso. E’ quello che ti aspetta, ma solo in capo a una discesa all’inferno. La discesa all’inferno, quella vera, non ha grandezza: è miserabile.
Se sapessi che cosa sono i grandi criminali, una volta che li incontri in carne e ossa.
Se invece non hai ancora premeditato il tuo fatto, e ti alleni, con le parole e magari anche con le cose (le cose, che stanno al di qua dalle parole, salvo incidente), e giochi al rialzo, sappi che le parole ti prendono in ostaggio, ti sequestrano, e ti portano dove vogliono loro, alla prova del fatto. Si chiede perché in Italia sia durata tanto la violenza: perché erano durate tantissimo le parole.
Erano state a lungo parole che rispondevano a fatti. C’erano i manifestanti da una parte, e scandivano slogan, cantavano e gridavano a squarciagola.
Di fronte altri manifestanti, altri slogan, altri canti. In mezzo, nemico, lo stato. Perfino in una manifestazione di strada, lo stato è silenzioso, finché suona tre squilli di tromba. Lo stato ha questo di distintivo, che deve usare meno le parole e più i fatti. Così per un lungo periodo bisogna rispondergli con le parole, e il loro rincaro: sui fogli firmati, sui muri, poi sui fogli anonimi, poi sui muri notturni. E più crescono i fatti del tuo nemico, più feroci e oltranziste diventano le tue parole. Finché non bastano più. Dopo che hai detto: “Fucili!”, che altro puoi dire? Devi andare a procurarti un fucile. E se non lo fai, perdi il rispetto per te. Se lo fai, perdi te. Quelli che lo fanno possono essere i migliori, che non hanno il coraggio di tradirsi, di tirarsi indietro, di non prendere sul serio le parole che hanno troppo gridato; o i peggiori, quelli che le parole non le sanno maneggiare, e hanno solo aspettato che venisse il momento di menare le mani, con l’autorizzazione della buona causa. Frustrati, invidiosi di paese — senza amore. Tu ragazzo che tipo sei?
Fermati, aspetta un momento.
Hai una famiglia? Bisogna lasciare tutto e tutti, quando si passa la linea.
Madri e fratelli, come Gesù Cristo.
Poi, quando sarai in fondo al pozzo, ti ricorderai di aver avuto una famiglia — loro non se ne saranno mai dimenticati. Questa ridicola recita di una parte di italiani che amano la famiglia, e un’altra che la odierebbe. Tutti amano la famiglia, ed è là che cercano soccorso. Certo che esistono le famiglie che uccidono, che violentano… Ma la norma è un’altra. Le famiglie delle vittime, le famiglie dei carcerati, dei latitanti, degli assassini.
Sono ostili e nemiche, ma ci sono momenti in cui sono confuse insieme. Le vedove, gli orfani…
Nel periodo in cui lo stato faceva male, e noi ci vendicavamo col rincaro delle parole, avemmo per la prima volta davanti agli occhi una vedova, due orfane. La vedova si chiamava Licia Pinelli, le orfane Silvia e Claudia, avevano 9 e 8 anni. Chi torni a sfogliare la collezione di Lotta Continua, per cercare di ricostruire l’aria disperata di quel tempo, troverà il disegno su un foglio di quaderno a quadretti, e la grafia infantile che dice: “16 Martedì dicembre è morto mio padre”. C’è un problema in più, con destini come quello di Pinelli: che non rientrano nella categoria delle vittime del terrorismo, e nemmeno delle vittime. Non c’è riconoscimento dello stato, non c’è risarcimento.
L’accusa contro i miei amici e me accomunava, per il movente, Pinelli e Serantini. Franco Serantini, appunto, senza famiglia, orfano da orfanotrofio.
Fu massacrato da poliziotti in strada e in questura, abbandonato a crepare in una cella di isolamento. In che giorno della memoria toccherà a lui?
Perché ti scrivo, ragazzo? Non so. Un po’ per parlare ad altri. Del resto, le lettere pubbliche non si rivolgono mai al loro destinatario ufficiale, parlano ad altri. Ma con te c’è una ragione pratica: tu non hai un indirizzo, un nome, una faccia, per me. Posso provare a immaginarla, ma preferisco di no. La mancanza di faccia, l’anonimato, che nei tuoi conti ti tengono al riparo, sono ancora il tuo rifugio possibile. Puoi ancora salvarle, faccia e nome.
Penso di convincerti? Ma no! Nemmeno di incuriosirti. Figuriamoci se non lo so. Mi sarei messo a ridere se qualcuno mi avesse scritto una lettera simile, quando ero ragazzo, e sapevo tutto. Tutto.
Anche tu sai tutto. Però io ce l’ho il titolo per scriverti. Io non sono uno che se la squaglia. Se tu pensi di saper affrontare il periglio estremo, o la galera, bene, io anche. Non mi spaventa la galera, né il periglio estremo. Non occorre votarsi alla lotta armata per far fronte alla vita. Non mi sono fatto mancare molto.
Le guerre, ci sono andato dentro, e le odio più di te, e non meno di chiunque.
La galera, ci sono andato dentro, più volte, e per tanti anni. E’ più penoso le prime notti, poi gli anni volano. Se avessi detto che ero colpevole, che ero il mandante di un omicidio, non avrei trascorso un’ora in galera. Ce l’ho, il titolo a parlare con te, e con chiunque.
Io non l’ho superata, quella linea, e non so nemmeno se avrei saputo oltrepassarla: dico di sì, per non sospettarmi vile, e perché ho saputo che cosa significasse un riconoscersi gli uni negli altri.
Dunque non accampo differenze morali. Uno che uccide uccide anche se stesso, e quando sia davvero ritornato a sé è la persona più degna di un dolore solidale. Può succedere davvero che l’assassino e la vittima si incontrino: ne dubito e ne diffido, ma l’altra sera ho sentito Antonia Custra dire all’assassino di suo padre di stare tranquillo, che lei è piena di amore. Succedeva in televisione, e tuttavia faceva rabbrividire.
E’ merito del libro di Mario Calabresi.
Oggi io provo solo pena e dispiacere. Ho visto un film, “Gli innocenti”, che fa la domanda giusta: “Ma allora non finirà mai?”
Tu sei contro la pena di morte, vero? Fin dove arriveresti per combattere la pena di morte? Fino all’omicidio, e oltre — non è vero?
Perché in Italia è durata tanto la violenza? Perché sono durate tanto le parole. Dopo che hai detto: “Fucili!”, devi procurarti un fucile Avevo immaginato che la mia galera potesse servire ad avvicinare la fine, e a favorire il ricominciamento di cui c’è bisogno
Sto parlando anche a lui.
Oggi io provo solo pena e dispiacere. Sono andato a vedere quel film di Per Fly, “Gli innocenti”. Ha un intreccio rocambolesco, caratteri un po’ scontati.
Però fa la domanda giusta: “Ma allora non finirà mai?” Tu ragazzo forse non puoi capirla, tu sei nel punto in cui la cosa sta solo cominciando — come potresti preoccuparti di trovare un modo per finirla? Eppure.
Non eravamo pazzi noi, nemmeno quando pensavamo e dicevamo e facevamo cose da pazzi. Eravamo capaci di intendere e di volere. Non erano pazzi nemmeno quelli che firmavano gli appelli che oggi si leggono con raccapriccio.
Non c’entrai niente, e non avrei dato alcun peso a quell’appello e alle sue firme, ero troppo pieno di me e di noi.
C’erano ottocento firme, anche le più illustri, anche le più degne. Si sa, le firme agli appelli, a quel tempo, e sempre: uno non chiede nemmeno che cosa dica, chiede chi altri ha firmato. Si sa, ti chiamano al telefono, dici di sì per liberartene.
Qualcuno ancora oggi protesta che gli fu estorta, la firma. Però non può essere tutto qui. Non doveva essere facile estorcere firme, o carpirgliele sotto il naso, a persone che si chiamavano Primo Levi e Giorgio Amendola e Giancarlo Pajetta.
Intanto, non c’erano allora morti ammazzati per mano privata, ed erano, per i più, ancora impensabili. C’erano tutti quei morti “di stato”, nella banca, nella questura. C’era uno scandalo che faceva soffocare. E credo che anche quegli illustri (illustri davvero) firmatari ricorressero a loro modo al rincaro delle parole. C’era scritto, in quell’appello, “torturatore” e “assassino”.
Come potevano crederci? — ci si chiede oggi. Come potremmo non crederci? — si pensava allora.
Non sto affatto evocando l’aria del tempo per riscattare errori e colpe.
Tant’è vero che l’aria del tempo non era la stessa per tutti. Leggendo il libro di Mario Calabresi mi sono chiesto ancora una volta se e come pensassimo allora alla famiglia del commissario. Non ci pensavamo, io non ci pensavo. Tuttavia altri, anche vicino a me, ebbero quel pensiero, e lo espressero. Dunque si poteva, e si doveva, fare. Mario Calabresi ha trovato su un numero del nostro giornale del ’70 una vignetta in cui suo padre gli insegnava a giocare con la ghigliottina. (In realtà la vignetta disegnava una bambina, citando una notizia sbagliata di Panorama). Era agghiacciante. Non per noi. Il disegnatore si proponeva proprio le provocazioni più insopportabili, che spingessero alla querela. Si chiamava Roberto Zamarin, morì presto, una notte in cui correva nella nebbia per portare il giornale alla distribuzione.
Mi vergognerei se non ripetessi ora che era un uomo meraviglioso.
Così ottusi fummo, ragazzo, e chissà come siamo. Torniamo alle parole rincarate: esse non servono solo a sfogare dolore e rabbia. Servono anche ad allontanare o dilazionare il passaggio ai fatti. Finché ci sono parole più grosse da gridare, ci si illude di esorcizzare il loro fatto. Questa è la lezione più importante, direi. E’ per questo che si deve temere che venga meno la memoria rispetto a un passato recente sì, ma già così lontano da escludere che tu, ragazzo, possa persuaderti di disporre di una ennesima innocenza, di avere il diritto alla tua prima pietra — e di sentirti tenuto ad andar dietro alle tue parole.
Negli ultimi anni ci sono stati assassini orrendi e futilmente sporadici, Massimo D’Antona, Marco Biagi, Emanuele Petri, prodotti da parole vecchie, tramandate dalle seconde e terze e ultime linee. La tradizione catacombale di queste parole le conserva, la luce del sole le ridurrebbe in polvere, come antiche mummie.
Anche tu, ragazzo, tieni tirate le tende della tua finestra e ti addestri al buio: chi non vuole essere visto, finisce presto per non vedere più. Tu non hai bisogno di quella lingua morta, se non come un pretesto. Certo la “tradizione” conta, perfino questa, il morto afferra il vivo. Ma si trovano sempre nuove ragioni per scendere in guerra in proprio.
Nel mondo c’è la guerra, c’è la fame, c’è la consumazione della natura, c’è il precariato giovanile. Basta metterci la maiuscola, e il più è fatto: la Guerra, la Fame, il Precariato. Il ministro dell’Interno ha appena dato l’allarme: “Il terrorismo non è ancora estirpato”. “Pensavamo — ha detto — che, trent’anni dopo, il terrorismo fosse cancellato”. In una fabbrica torinese hanno scritto: “Siamo tornati”. Ma non è vero. Scommetterei che l’ha scritto un ragazzo come te, uno che non è tornato, perché non c’era.
Sarebbe un errore credere che il “terrorismo” di oggi sia soprattutto un avanzo di quello dell’altroieri. Farsi impressionare dalla continuità impedisce di vedere la novità: il “terrorismo” che sta incubando si trova i suoi pretesti tutti nuovi nella condizione d’oggi, e l’epopea brigatista è un arredo d’epoca. Gli stessi “combattenti” maturi e addirittura anziani sono, alla lettera, dei sopravvissuti, simili ai rari superstiti della generazione dell’eroina. Del buco di eroina si moriva presto, e forse per questo sembrava che l’eroina fosse affare di giovani, e che non stesse bene bucarsi da grandi: semplicemente, non si arrivava a essere grandi. Qualcosa del genere succedeva per i “terroristi”: non sta bene esserlo a cinquant’anni, o sessanta. O semplicemente, si è morti prima.
Ce ne sono, di nuove nicchie per dei giovani che vogliano sradicarsi dalla società ufficiale e dal suo ordine costituito.
Cattiveria del mondo globale, ottusi della generazione adulta e dei suoi modi di vivere, un terzomondismo rinnovato dalla prossimità domestica coi migranti, una paradossale idea della pace e della nonviolenza tradotta in impulso alla violenza riparatrice, distanza cercata dalla propria generazione e dal conformismo dei suoi desideri, spettacolo universale della guerra — possono spingere pochissimi giovani all’attivismo armato, e non pochi alla simpatia e alla solidarietà. Ci si è fermati sugli attempati cospiratori presi nella retata ultima, che colpiva invece per i giovani, e la loro milizia politica e sindacale. Li si immagina reclutati dagli anziani, e ci si chiede che cosa li renda ancora vulnerabili al richiamo brigatista da anni Settanta, e probabilmente sono quegli sparuti anziani spostati a venir reclutati dai giovani, con la benevolenza che si assegna a chi è invecchiato senza trovare casa.
Mostrare la miseria dell’epopea dei terroristi è lodevole, se non altro perché è vero: ma a te non basterà, ragazzo. Ci sono sottomondi che si dissociano dalla conversazione comune per sentirsene esclusi e insieme esclusori e nemici, e comunicano in una lingua loro peculiare e irriducibilmente straniera. In quella lingua diventano possibili, plausibili e anzi doverosi, pensieri e gesti che altrove suonano deliranti, e suoneranno deliranti a loro stessi quando avverrà loro di uscire dalla nicchia. Il punto insuperabile delle ormai innumerevoli testimonianze degli attori della “lotta armata” degli anni Settanta e Ottanta è proprio qui: che loro stessi non sanno più capire come abbiano potuto vivere e agire in quel modo, e lo sforzo di rendere l’idea della temperie perduta può essere narcisista o angosciato, ma resta evasivo, come il racconto di un’ubriacatura molesta della notte prima. La violenza è ogni volta di nuovo incubata nel grembo del nostro mondo, e ogni volta la sua parabola si alza e poi ricade. E’ difficile che ricada senza essere andata oltre. Limitare i danni è questione che riguarda tutti, per un verso, e riguarda la polizia, per l’altro.
Noi avevamo smesso di chiamarla “strage di stato”, per stanchezza, per rigetto, quando cominciarono i magistrati competenti a chiamarla così. E’ diventata la dizione d’ufficio. Luigi Calabresi era un “fedele servitore dello stato”, come recitano oggi le lapidi? Sì. Ma di quale stato? A quale fedeltà è stato tenuto, o indotto? Qui non posso avere la stessa convinzione di sua moglie o dei suoi figli, benché mi dispiaccia terribilmente di ferirne i sentimenti. Quello stato era fazioso e pronto a umiliare e violentare. Lo so. Una volta uno dei suoi più alti esponenti venne a propormi un assassinio da eseguire in combutta, noi e i suoi affari riservati.
Nella primavera del 1969 ci fu una sequela di attentati a Milano. Erano fascisti, e delle stesse mani che avrebbero colpito all’ingrosso il 12 dicembre, a piazza Fontana. Furono accusati e incarcerati anarchici e persone di sinistra.
Di quella indagine Calabresi fu dei principali autori. Per convinzione della colpevolezza degli anarchici, per fedeltà allo stato, per ambedue le ragioni, o per una sola? Il 12 dicembre fu il perfezionamento di quella vicissitudine, e lo stato, Roma e il questore Guida, vollero l’anarchico colpevole, e toccò a Pietro Valpreda, e per sovrappiù a Pino Pinelli. Perché Pinelli? Perché viene tenuto per tre giorni, illegalmente (il vicequestore Allegra fu solo amnistiato per questo reato)? Perché si dice di lui, perfino dopo lo schianto, che si è riconosciuto colpevole, che ha gridato: “E’ la fine dell’anarchia”, che è stato schiacciato dalle prove?
D’Ambrosio ha giudicato che Calabresi fosse uscito dal suo ufficio. Bene. (Anni fa, D’Ambrosio, tradito dalla memoria, disse che era stato l’anarchico Valitutti a confermare: ma Valitutti aveva detto il contrario). Calabresi era fuori dalla stanza, a far firmare i verbali. E i quattro che comunque nell’ufficio di Calabresi erano rimasti? Di cui D’Ambrosio accerterà che mentirono? E che furono promossi, tutti? E che non hanno detto più una parola? E che nessuno è andato più a interpellare, in un paese in cui dodici richieste di intervista non si negano a nessuno? Quello stato che abbandonò Calabresi durante il linciaggio di cui noi fummo la punta avanzata, dovette garantirsi bene della fedeltà degli altri quattro. E poi la sequenza dei processi, la ricusazione di un giudice colpevolista, le omertà…
Ce n’era abbastanza per agitare le notti dei paladini di vedove e orfani. E un delitto commesso dallo stato è peggiore di uno privato. Il delitto privato coinvolge la responsabilità del suo autore, quello dello stato vuole rendere complice l’intera comunità. E’ vero che allora in tanti vedevamo la società così radicalmente spaccata in due parti, che noi stessi pensavamo come se fossimo l’altro stato, ed evocassimo e usurpassimo una giustizia in nome del proletariato, e in anticipo sul futuro.
(Diceva questo il mio comunicato dopo l’uccisione di Calabresi, distorto in quell’inventato “Giustizia è fatta”). Per questo si può avversare la pena di morte e compiere un omicidio. Dì la verità ragazzo: tu sei contro la pena di morte, vero? Fin dove arriveresti per combattere la pena di morte? Fino all’omicidio, e oltre — non è vero?
Io, che non conosco più il mondo, se non in certi suoi ripostigli tormentati, mi chiedo se tu, sul punto di passare la linea, non ti ritenga anche un adepto della nonviolenza. La nonviolenza — che è il cammino più paziente, tortuoso e arrischiato da intraprendere — è arrivata per alcuni così repentinamente da riuscire perfino a rianimare le motivazioni della violenza. Grammatica nonviolenta, pratica violenta. Ti piacerebbe ammazzare un gran sindaco, un gran cardinale? Sapevi chi erano D’Antona, Biagi? Gli inquirenti hanno citato un passo della brutta copia della lettera di una brigatista recente a un suo compagno: “A mia sorella ho urlato che, fosse stato per me, Biagi l’avrei torturato prima di giustiziarlo, ed è proprio così, per quello che ha fatto al proletariato”. (Il brano non è stato poi copiato nella lettera spedita).
Delirio impensabile, o una corazza fortunosa arrivata al punto di spezzarsi — o tutt’e due. E tu, ti piacerebbe torturare Cofferati, per quello che ha fatto al proletariato?
E se anche fosse così, tu resti contrario alla tortura, immagino, no?
L’ho già detto: non mi illudo che tu mi stia a sentire. Eppure potresti almeno scommettere un centesimo sulla mia conoscenza del prossimo. I compagni combattenti, di ieri e di oggi, sono fessi. Non sanno quello che fanno. Fraintendono. Guardano un bravo professore laburista in bicicletta, e lo scambiano per un aguzzino del proletariato. Guardano un bravo sindaco di sinistra, e lo prendono per un boia imperialista. Sono fessi. La cosa peggiore è che fraintendono anche se stessi: si guardano allo specchio, e vedono, invece che un giovane precario, un po’ incazzato, cui piacerebbe quella lì, loro vedono un intrepido giustiziere antimperialista. E’ una malattia degli occhi. Poi passa. Si smette di essere fessi. Prima o poi.
Dunque ti stai allenando. Magari hai già un “ferro” da montare e rismontare, calcolando la velocità. Immagini già lo scenario della tua azione. Provi già la frase: “Mi dichiaro prigioniero politico”.
No: “Prigioniero Politico”. Anzi:
“PRIGIONIERO POLITICO”.
Tu, ora, puoi essere lusingato. Puoi farla grossa davvero. Vedi il discredito della vita pubblica. Vedi le grandi manovre di piccoli partiti che corrono a occupare “lo spazio appena lasciato vuoto” dal partito adiacente. Perfino tu potresti speculare su questa rincorsa alla geometria solida: “lo spazio lasciato vuoto” dalla crisi della lotta armata è una prateria ai tuoi piedi. Hai l’acquolina in bocca a figurarti il danno che puoi fare. Ributtare ciascuno nel proprio angolo, ciascuno coi propri morti. Appena arriverà un morto nuovo, il tuo, sarà tutto compromesso, giornata della memoria e lapidi e strade intitolate.
E tu avanzerai lungo il cammino che porta a vedere nel proprio compagno un traditore, e a tradire, e poi a pentirsi o dirsi irriducibile, a morire “in combattimento” o compilare istanze per un permesso premio e preparare in cella l’esame di diritto internazionale.
Nessuno tiene a prendere trenta all’esame quanto un ex clandestino.
Ma allora davvero non avrà mai fine?
Avevo immaginato che la mia galera potesse servire ad avvicinare la fine, e a favorire il ricominciamento di cui c’è bisogno. Ho detto che il film di Fly ha una trama rocambolesca. Ma la concatenazione incredibile che i grandi romanzi riescono a rendere verosimile è anche la vera anima della vita. In questa catena nessuno è libero. Si può provare a spezzare il proprio anello. Tu, apprendista della camera oscurata, puoi ancora spalancare la finestra, respirare fondo, e disertarla, la catena.
Hai un mondo da conquistare, ragazzo.

SOFRI SPIEGA QUELLA MAZZETTA DI OMICIDI CHE GLI FU CHIESTA Perché ha “alluso”, perché “solo ora”. Spiegazioni lineari, anche a chi sa bene cos’erano gli Affari Riservati.

di Adriano Sofri — Il Foglio, 29 maggio 2007. (L’articolo è pubblicato con questa data solo perché Il Foglio non esce la domenica e il lunedì. Il primo pezzo era uscito sabato 27, dunque il secondo martedì 29).

Un po’ più di cinque anni dopo il 12 dicembre 1969 di piazza Fontana, rinominato (e anestetizzato) ormai ufficialmente Strage di stato, Federico Umberto D’Amato, già responsabile dell’Ufficio Affari Riservati, il più noto e influente titolare dei servizi italiani nel dopoguerra, mi chiese un incontro, tramite un conoscente comune, accampando una ragione privata. Non avendo io, né allora né mai, motivo per rifiutare di vedere qualcuno, consentii: trattandosi di un colloquio privato, e chiesto da lui, si sarebbe svolto a casa mia. Una sera D’Amato venne a casa mia.
Era un vecchio appartamento in un vicolo del rione Monti, che definire modesto è già troppo benigno, in cui abitai dal 1973 al 1976 con Randi, cani, e un perenne viavai di persone, come usava. D’Amato salutò galantemente Randi, che si sbrigò a lasciarci soli, e lo stesso fece il suo accompagnatore. La conversazione si trastullò per un po’, con un certo impegno da parte sua, uomo che sapeva (fin troppo) stare al mondo, e che sapeva ancor meglio che cosa Lotta continua pensasse e scrivesse di lui.
Meno impegnato, io consideravo quel balzacchiano gastronomo dall’eloquio forbito, dalla faccia irreparabile e dal profumo di barbiere. Mi sembrò che per un po’, come succede in certe circostanze, volesse mostrarsi persona di cultura. Avendolo io interrotto su un anello che spiccava su una mano assai curata, così madornale da sembrare d’ordinanza, me ne spiegò il legame — se la memoria non m’inganna — con la morte di sua moglie, e il fresco dolore che ne provava.
Quando lo invitai a venire al suo proposito, mi disse, con la stessa amabile naturalezza, che si trattava dei Nap, i Nuclei armati proletari. Che tutti sapevano come alcuni fra i loro membri avessero rotto con Lc accusandola di non voler passare alla lotta armata. Che erano pochi, che avrebbero continuato a seguire la loro natura di criminali comuni, contro lo stato, ma anche nuocendo gravemente a noi e al movimento in cui ci riconoscevamo. Che la normale repressione ne sarebbe venuta a capo, ma chissà in quanto tempo e dopo quanti guasti.
Che era dunque interesse comune toglierli fisicamente di mezzo (“Fisicamente?” “Fisicamente!”), ciò che avrebbe potuto avvenire con una mutua collaborazione e la sicurezza dell’impunità. Prima che finisse gli avevo indicato la porta, e lui la prese senza battere ciglio. Dunque quel signore non mi propose di prender parte a un omicidio, ma, seppure in un linguaggio da dopobarba, e senza avere il tempo di entrare nel dettaglio, un mazzetto di omicidii.
Quel linguaggio, e la brusca fine dell’intrattenimento, mi impediscono ancora oggi di decidere a che cosa davvero mirasse, benché comunque la provocazione fosse spettacolosa. Ecco. Misi a parte dell’episodio poche persone, che fossero in grado di capire e rispondere se la cosa avesse avuto seguiti imprevedibili. Non ne parlai pubblicamente: non avevo prove del tema (io non avevo congegni spionistici, forse lui sì) e nella pubblicità poteva magari risiedere la provocazione. Soprattutto, a parte l’impudenza, non c’era niente che fosse capace di meravigliarci nell’operato di D’Amato e dei suoi uffici: e caso mai è grossa che qualcuno mostri di meravigliarsene oggi.
Ci fu, qualche tempo dopo, una circostanza tragicomica: un paio di persone, che erano state a me molto legate, avevano aderito ai Nap e mi rinfacciavano di non approvare e anzi di non capeggiare la loro guerra — si leggevano i “Cent’anni di solitudine” in carcere, e io ero stato l’Aureliano Buendia dei loro sogni — mi tesero una specie di agguato alle porte di casa, che si tramutò in un parapiglia e poi si accontentò di uno scambio di insulti e di accenni di rimpianto.
Ripetei loro ancora una volta, e a ragion più veduta, quello che mi ero sforzato di dire dall’inizio della loro impazienza: che andavano allo sbaraglio, che lo stato giocava con loro come il gatto col topo, che avrebbero fatto male alla loro causa e perduto se stessi. Le stesse cose che si leggono sulle pagine del nostro giornale di allora. Fu quello che si consumò nella breve stagione dei Nap, autori di azioni sanguinose, e manovrati e trucidati senza scampo.
Fra loro persone specialmente generose, trascinate oltre e contro le proprie convinzioni da una solidarietà invincibile di compagni di galera e di lotta. Così, già nel 1974, il giovane Sergio Romeo e Luca Mantini in una rapina fiorentina seguita, se non promossa, dalle forze dell’ordine, e lasciata svolgere fino all’uccisione dei suoi autori. Così nella tragedia della sorella di Mantini. Così nell’attentato romano culminato nel “fuoco amico” che uccide Martino Zicchitella nel 1976. Così nell’esecuzione di Antonio Lo Muscio nel 1977. Questo dunque l’episodio cui avevo fatto cenno. “Perché ora?” Perché ora ho scritto a proposito di una memoria che, avendo lodevolmente cura di rendere giustizia a persone ed eventi trascurati o offesi o calunniati, inclina a una opposta deformazione.
Ho ricordato, benché non ce ne fosse bisogno, che lo stato di quegli anni Sessanta e Settanta aveva uomini e organi capaci di ogni illegalità e di veri crimini. Io non sono attaccato alle formule sistematrici, e piuttosto ne diffido: non sono affar mio né il “doppio stato”, né le “deviazioni”, né altre semplificazioni di una gran porcheria durata troppo a lungo. La mia “rivelazione” non rivela niente di più di quello che è evidente per mille prove: per me, fu un personale saggio di quello che sapevo.
D’Amato è morto, da dieci anni. Come succede, molti — troppi — lo protessero e ne furono protetti, a destra (soprattutto) ma anche a sinistra, e probabilmente strada facendo dimenticarono, come conviene, a chi convenisse. Ebbe anche lui parecchie vite, e molti lo frequentarono, anche persone degnissime, e trovarono delle buone e piacevoli ragioni per farlo: il mio carissimo amico Federico Bugno, per esempio, collega suo all’Espresso e compagno di gusti letterari e culinari. Resta che se con ogni uomo che muore è un’intera biblioteca che scompare, con D’Amato se n’è andato un intero archivio: e anzi, siccome non ci stava tutto, sepolto lui furono lasciati alla rinfusa nella via Appia 150 mila fascicoli non catalogati…

Nel 2010 venne fuori un passo da appunti interrotti (sono tre pagine dattiloscritte) che D’Amato scriveva nei primi anni ’90, vantando di aver avuto rapporti con ogni genere di persone, compreso me:

“…La faccio breve perché altrimenti rischio di raccontare la storia della mia vita professionale e cito soltanto qualche caso di rapporti amichevoli con tipi come Giulio Caradonna, il più agitato degli agitatori missino (del quale sono oggi ottimo amico), come Jacques Soustille /sic!/, capo dell’OAS in Italia o FEZIZ (nome di battaglia della rivolta algerina) come Adriano Sofri (con il quale ci siamo fatti paurose e notturne bottiglie di Cognac) con politici di medio ed alto livello tanto missini quanto comunisti (dei quali evito di fare i nomi) o, infine, con personaggi come Licio Gelli”.

“Ci siamo fatti paurose e notturne bottiglie di Cognac”. Seppi di quell’appunto da Aldo Giannuli, ne risi, e gli chiesi che cosa potesse avere spinto D’Amato a escogitare una tale fregnaccia. Giannuli conosce me e la mia casa, io non bevo: quando gli capitò disse che quella di D’Amato era una balla, e aggiunse una battuta sul fatto che oltretutto io sono astemio. Non era un argomento valido, io avevo smesso di bere — e di tante altre cose, e da tanto tempo. Non negli anni ’70, quando avrei potuto bere un bicchierino — non farmi bottiglie.

Ora, io non ho idea della ragione che spinse D’Amato a quella menzione. Posso provare a immaginarne qualcuna. D’Amato può aver temuto che prima o poi io raccontassi la sua vecchia provocazione, e avanzato una sua versione. Può aver tenuto a includere anche me — un boccone non trascurabile, a suo tempo — nella gamma delle sue vantate frequentazioni.

Ma lasciamo da parte chi crede alla mia parola, e vediamo chi ne dubita perché non ne è persuaso o, motivazione che va forte, perché mi odia. Per esempio, arrivando a dire che D’Amato si avventurava a propormi un’impresa omicida perché sapeva di me e di Lotta Continua che ne eravamo capaci, magari proprio per l’omicidio di Calabresi. Seguendo l’ipotesi, ecco la conseguenza: che D’Amato rivendicava di aver condiviso bevute notturne di cognac con l’autore, un giorno scopribile, dell’omicidio di Calabresi.

Senza spingersi fin là, altri ipotizzano un torbido e indicibile rapporto (indicibile e torbido sono un’aggettivazione pregnante a carico di chi la impiega) fra D’Amato e me, e dunque Lotta Continua. Ora la collezione di Lotta Continua, quotidiano e volantini e tutto, è un’illustrazione esauriente del nostro atteggiamento nei confronti di quel gastronomo, quando era l’uomo degli Affari Riservati e dopo — sempre. A meno che non si trattasse di un fumo machiavellico per nascondere l’arrosto della combutta.

Se nel 2007 non avessi raccontato quell’episodio del mio incontro con D’Amato, perché ero molto arrabbiato per le rimozioni e le ipocrisie sulle malefatte di cui era stato capace lo Stato, l’appunto di D’Amato sulla sua familiarità superalcoolica con me sarebbe stato comunque grottesco, ma sarebbe sembrato più autentico e disinteressato.

Pacini, ricostruita la questione in un paragrafo intitolato “Tra Pci e Lotta Continua”, sembra concludere: “Aldilà di quest’accenno (inserito, come si vede, in un contesto molto più ampio) ulteriori riscontri all’esistenza di un legame fra Sofri e D’Amato non esistono e peraltro anche Mango /Giuseppe Mango, segretario degli AARR e responsabile dei pagamenti delle “fonti”/ ha sostenuto di non riuscire a credere alle ‘bevute di D’Amato con Sofri’, circostanza di cui mai seppe nulla”. Parecchie pagine più in là Pacini scrive però che “i suoi contatti /miei, AS/ con D’Amato rimangono ancora oggi da capire fino in fondo”. Non tornerò sulla questione. Ci sono persone — non ne faccio i nomi, vivono di pubblicità — che intimano: “Sofri deve spiegare”. Pubblici accusatori a titolo privato. Miei nemici, semplicemente: umanissima condizione. Ne ho tanti, peccato.

D’Amato è morto nel 1996. Io e i miei compagni fummo arrestati e incriminati per l’omicidio Calabresi nel 1988. Non ebbe niente da dire sull’omicidio Calabresi? E di me, indicato e condannato come mandante, aveva da dire che facevamo delle gran bevute notturne?

Gli Affari Riservati e la strage di Piazza Fontana

Torniamo al libro. Pacini ricostruisce una carriera romanzesca che va dagli anni del fascismo e della guerra, in cui si fecero le ossa sulla pelle altrui tanti dei prossimi protagonisti degli apparati di sicurezza repubblicani, fino ai giorni nostri, attraverso varii cambi di denominazioni del servizio. Fra le quali, quasi sempre sigle senza alcun significato comune — non so: UCIGOS — quella formula, “Ufficio Affari Riservati”, suonava, prima di diventare abituale, piuttosto buffa: faceva pensare a un bordello. Legato ai servizi americani, alla Nato, ai servizi europei occidentali, associati da un certo punto in un ufficioso “Club di Berna” di cui fu l’eminenza, ai colleghi d’oltrecortina, alla P2, eccetera, D’Amato è per un verso un personaggio misterioso, dalle rare fotografie (ma non era solo lui, erano i tempi) e dall’aura losca e sospetta, per un altro il collaboratore di film lacrimosi e varietà televisivi, il tenutario della rubrica gastronomica dell’Espresso, firma: Gault et Millau, e coautore della relativa Guida, firma Godio, il frequentatore di persone fini, intelligenti e col gusto dell’avventura come il principe editore Carlo Caracciolo… Mi viene da dire che sia stato, D’Amato, per antonomasia e in persona, il “corpo separato” dello Stato italiano.

Oggi D’Amato, e con lui altri egregi trapassati, Licio Gelli, Umberto Ortolani, Mario Tedeschi, sono processati a Bologna quali mandanti, finanziatori, organizzatori e depistatori della strage alla stazione del 2 agosto 1980, la più sanguinosa: 85 morti, 200 feriti. Per la sua esecuzione c’è un nuovo imputato, il neofascista Paolo Bellini, che si era rivendicato pluriomicida, anche del giovane militante di Lotta Continua a Reggio Emilia, Alceste Campanile. Il clamoroso sviluppo bolognese è solo enunciato nell’introduzione di Pacini, dal momento che il processo si è aperto da meno di tre settimane.

Nel 1996 Aldo Giannuli, allora consulente per il giudice Guido Salvini, rinvenne in un deposito — pressoché una discarica — a Roma, sulla via Appia, una quantità di carte del ministero dell’Interno, 150 mila fascicoli, e fra essi una parte dell’archivio di Silvano Russomanno, vice di D’Amato e anima nerissima del nero Ufficio. L’anno dopo fu il magistrato Carlo Mastelloni, titolare a Venezia dell’inchiesta sull’abbattimento dell’aereo Argo, a far sequestrare presso il Viminale il registro delle fonti dell’UAR, coi nomi di copertura e a volte i veri nomi dei confidenti e i pagamenti versati loro.

La storia fatale che più di un quarto di secolo dopo le carte degli Affari riservati hanno permesso, obbligato a rintracciare, è quella del 12 dicembre 1969 di piazza Fontana — 17 morti dilaniati da una bomba — e del 15–16 dicembre 1969 della Questura milanese — un anarchico innocente volato giù dal quarto piano. In quei giorni l’Italia era traumaticamente cambiata. Aveva scoperto che qualcuno era stato pronto a fare strage di innocenti per un disegno malvagio, e che da un ufficio di polizia, durante un fermo illegale, nel corso di un interrogatorio senza avvocato né magistrato, si poteva uscire dalla finestra. Poi per anni si arrovellò, l’Italia onesta, spaventata e inorridita, attorno a quella sequenza. Si era sentita dire subito che la bomba era anarchica, e che la belva umana che l’aveva collocata era stata presa, e che l’anarchico interrogato si era sentito perduto e si era buttato — con un balzo ferino. Gli increduli, pochissimi, pochi, poi innumerevoli, si affannarono a ricostruire passo per passo, persona per persona, chi era entrato e uscito in quella banca, chi era entrato e uscito in quell’ufficio della questura. C’erano là 5 uomini, quattro poliziotti e un carabiniere, il ferroviere anarchico, un altro anarchico fermato e seduto nel corridoio, il vicequestore capo dell’ufficio politico con la stanza di fronte… Era un continuo montare e rismontare i loro movimenti, come nella ricostruzione di una battaglia persa, a partire da quelli certi: Pinelli giù dalla finestra, l’anarchico Valitutti sulla sua sedia d’aspetto e l’orecchio teso ai rumori turbolenti. Calabresi, prima della defenestrazione: forse restato nella stanza, forse uscito per recarsi nell’ufficio di Allegra. E dopo, Calabresi e gli altri poliziotti che non pensano nemmeno di correre giù, a vedere se l’interrogato è vivo o morto, se abbia un’ultima parola e quale, e corrono ai propri ripari e poi a sedare Valitutti. Il carabiniere, l’unico, già un po’ fuori posto, a correre giù dalle scale per vedere che cosa resti dell’uomo con cui hanno condiviso fino a un momento fa parole, gesti, urla, fumo. Montare e rismontare, e poi provare e riprovare, tuffi dal trampolino-modello della ringhiera del quarto piano, cadute intenzionali, esanimi, su spinta, per impulso proprio — per malore attivo. Anni, con quella scena davanti e quel numero di personaggi.

Finché, improvvisamente, arrivano le nuove carte, e le nuove ammissioni a magistrati diversi, spesso nemmeno competenti per quella storia. Dicono che fin dalla sera del 12 dicembre c’erano in quelle stanze, in quel corridoio, a quella scrivania del vicequestore e capo dell’Ufficio politico Allegra, molti altri uomini, una decina, una dozzina, gli uomini degli Affari Riservati di D’Amato accorsi da Roma, e fra loro, dal giorno dopo, l’anima nerissima Russomanno, accomodato alla scrivania di Allegra. Non hanno detto niente, né quella notte, né poi — né nella conferenza stampa del signor questore, né ai magistrati inquirenti, figurarsi ai giornalisti. E gli altri ad arrovellarsi attorno alla scena del delitto, contando e ricontando, sulla punta delle dita: due anarchici, un commissario, un vicequestore, tre brigadieri, un ufficiale dei carabinieri. Otto persone, otto modellini del montaggio della battaglia. E non uno degli altri dieci, o dodici. Per anni ogni movimento tenacemente, fervidamente ricostruito sulla scacchiera di quel quarto piano è stato beffardamente inutile, insensato: come un assassinio sull’Orient-Express in cui si sia scoperto dopo la fine del film che i passeggeri non erano dieci, ma venticinque, e i dieci agli ordini dei venticinque, e il primo degli ordini quello di tacere sulla loro presenza. E l’hanno taciuta, incrollabilmente. Per anni. Anche quando hanno avuto ragione di pensare che andasse contro la loro difesa. Quando poi, anni dopo, un magistrato là, a Venezia, una magistrata qua, a Milano, li ha interrogati, esterrefatto lui, lei costernata: “Ma voi eravate nella Questura di Milano, in quei giorni, quella notte?”, hanno risposto: “Sì, certo”, con la più gran naturalezza e quasi sorpresi, dopotutto nessuno gliel’aveva mai domandato…

Ho ridescritto questa scena drammaticamente, per così dire, o retoricamente, se preferite, perché anche allo sdegno ci si abitua, ma ho ancora bisogno di farvi sentire che enormità è successa, sulla scena del crimine: occultare, anzi scientemente dirottare la verità su una strage, i suoi responsabili, il disegno cinicamente reazionario che la ispirava. Poi si sono cancellate le presenze dalla fotografia di gruppo della Questura. Si sarà riso dello scherzo: “Adesso provate pure a capire che cosa è successo, dilettanti!” Calabresi è restato nella stanza o è uscito a consegnare un verbale nella stanza di Allegra? Rispondete ora, considerando l’eventualità che nella stanza di Allegra fosse seduto Russomanno.

Pacini ha ricapitolato le cose rimettendo tutti i presenti al loro posto. L’hanno già fatto altri, un po’ alla volta, mettendoci parecchio, quasi increduli loro stessi di una simile enormità: prima un libretto breve di Gabriele Fuga ed Enrico Maltini, “E ‘a finestra c’è la morti”, 2013, poi uno più circostanziato, “La finestra ancora aperta”, 2016 (Maltini è morto in quell’anno), poi nel 2019 le ricerche di Paolo Brogi, di Enrico Deaglio, nel 2020 di Massimo Pisa.

Il mio libro, La notte che Pinelli, aveva sudato sangue, ma era uscito nel 2009 e non sapeva di quella confisca della scena da parte degli Affari riservati, di quei 25 sull’Orient Express. A sua volta, l’estensore della sentenza “definitiva” su Pinelli, Gerardo D’Ambrosio, 1975, aveva giudicato senza saperne niente. (E’ morto nel 2014, dunque era vivo quando si seppe, ma non mostrò di accorgersene).

Ho fatto ricorso a una retorica sdegnata (in realtà mi sale il sangue alla testa) perché la lettura di Pacini mi ha suscitato due sensazioni. La prima e sostanziale, un apprezzamento per la lucidità dell’uso dei documenti e dell’esposizione. La seconda, e piuttosto psicologica: una differenza di tensione, diciamo. Normale, dev’essere quello che distingue testimoni da storici, o anche i semplicemente coevi dai successori. Pacini è nato nel 1976, anni dopo quel 12 dicembre, non si è visto sbucare davanti all’improvviso dalle sentine gli uomini riservati.

Ma andiamo oltre. C’è una corrente di pensiero, chiamiamola così, che è teneramente affezionata all’idea che “dopo tutto”, “in fondo in fondo”, “in un modo o nell’altro”, eccetera, nella strage di piazza Fontana e nelle altre bombe del 12 dicembre una qualche combutta fra fascisti e anarchici debba esserci stata. E’ un caso degno della migliore attenzione. Costringe a chiedersi se non abbia un qualche fondamento, un qualunque appiglio. E a interrogarsi sulla psicologia di chi fa mostra di questa affezione.

Il caso, infatti, è questo. Una combutta vera, provata, di terroristi neofascisti e di complici, protettori e depistatori negli apparati dello Stato, proclama con veemenza la colpevolezza degli anarchici. Valpreda ha piazzato la bomba, Pinelli si è buttato gridando che l’anarchia è finita. Tutto chiaro, tutto preparato da lontano: bombe dell’aprile alla Fiera, bombe dell’agosto ai treni. Poi, lentamente, faticosamente, sgombrando via via il cammino dagli ostacoli accumulati, la verità si afferma: sono stati i neonazisti di Ordine Nuovo veneto, Freda, Ventura, i loro accoliti, i loro corrispondenti romani. Sono stati loro il 12 dicembre, e prima, il 25 aprile, sui treni dell’8–9 agosto. Polizia (con eccezioni singolari, che l’hanno pagata), Affari Riservati, magistrati (con eccezioni, come sopra), servizi segreti, hanno rifiutato a lungo di seguire quella traccia e hanno mentito metodicamente sul proprio operato.

Nel quadro ora illuminato gli anarchici non ci sono più, ci sono i neonazisti e i loro protettori altolocati. Quale bisogno intimo induce a rimescolare le carte, a tenere un posto agli anarchici nel nuovo paesaggio? Dev’essere un bisogno stringente, se spinge a ripescare la storia del sosia, non solo, ma perfino a raddoppiarla: non più un sosia di Valpreda, ma Valpreda e il sosia insieme, due, e due taxi, due borse, due bombe, due di tutto. Una simile escogitazione attiene alla psichiatria, e a suo tempo, quando vi cedette incautamente il film di Giordana, “Il romanzo di una strage”, documentai a quale punto di cialtroneria arrivasse. In un ambito culturalmente decente, sarebbe finita lì. Non lo è.

Del resto, prima di diventare così impudente, la tesi aveva avuto una sua incubazione. Allora si capiva bene a che fine rispondesse. Chi aveva proclamato la colpa degli anarchici, di Valpreda, “la belva umana”, del suicida Pinelli, “schiacciato dalle prove”, riluttava a riconoscere una verità interamente capovolta. Gli uomini che avevano confezionato o accreditato il falso, dai più in alto, Russomanno, ai manovali, il Panessa intervistato ancora nel 2020, ad Allegra, il capo dell’ufficio politico, non hanno mai rinunciato a ribadirlo o insinuarlo. Così Calabresi. Gemma Capra, la sua vedova, ha pubblicato nel 1990 per le edizioni paoline un suo “diario segreto dopo 17 anni di silenzio” (“Mio marito il commissario Calabresi”, con Luciano Garibaldi). Vi si legge che a un certo punto, “vicino al giorno in cui fu assassinato” (il 17 maggio 1972) il commissario cambiò la sua opinione in quella: “Menti di destra, manovali di sinistra”. (Il libro di Gemma Capra conserva, nel 1990, la convinzione di Valpreda autore dell’attentato e di Pinelli suicida).

Per la tesi di cui dicevo, gli orditori nazisti del piano terrorista del ’69, al fine di far ricadere sugli anarchici la colpa delle bombe, avevano progettato l’astuto piano di far mettere le bombe agli anarchici. Chissà se chi mostra di credere alla cosa, o anche solo di dubitarne, ha mai pensato sul serio a che cosa stava dicendo.

L’appetito vien mangiando. Strada facendo, pensatori di questa fatta, cui non bastava credere che Lotta Continua avesse ucciso Calabresi, si sono spinti a sostenere che Lotta Continua, “manovali di sinistra”, l’avesse fatto su commissione degli Affari Riservati, “menti di destra”: “derivative assassination”. Assassini e fessi completi, anarchici e Lotta Continua.

Benché prudentemente, e senza ispirarsi a un partito preso, mi pare che Pacini muova qualche passo in questa direzione. Lo fa dopo una lunga ricostruzione dalla quale emerge il deliberato operato degli AARR per istradare alla pista anarchica e sottrarre o seppellire le prove sulla pista veneta. (Nel deposito sulla via Appia si trovano perfino i pezzi di un congegno esploso su uno dei treni della notte del 9 agosto, sottratti a chi investigava. Nell’agosto, per quelle bombe sui treni, era stato messo sotto controllo il telefono di Pinelli — “l’amico di Calabresi”…). Così la testimonianza immediata e certa della commessa padovana che ha venduto le borse Mosbach&Gruber usate per gli attentati e ha riconosciuto in Franco Freda l’acquirente. Raccolta da un agente dell’UAR, la testimonianza viene sepolta per tre anni!

“In perfetta coerenza con l’insabbiamento dell’informazione sulle borse, l’Uar instradò poi artificiosamente le indagini sulla strage di piazza Fontana verso la pista anarchica”.

Qui Pacini, sulla scorta delle carte UAR, ricostruisce la responsabilità tremenda e miserabile, anche troppo nota ma mai così schiacciante, di “Anna Bolena”, Enrico Rovelli, futuro grande impresario musicale, allora spia insieme pagata e ricattata dall’Ufficio, l’accusatore di Pinelli e degli altri anarchici. Figura, a tanta distanza, indegna di pietà come di disgusto. Le sue ripetute “spiegazioni” sulle pressioni e le minacce subite da Calabresi non giustificano niente, e non riducono di un millimetro la smisurata conseguenza delle sue false accuse.

“Già la sera del 12 dicembre 1969… Enrico Rovelli riferì a due funzionari dell’Uar, l’immancabile Russomanno e Ermanno Alduzzi /il capo della squadra 54, degli Affari Riservati a Milano/ che il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli era al corrente dei retroscena dell’eccidio”.

Fermiamoci un momento prima di riprendere il filo. Pacini ha appena scritto un’informazione enorme. “Già la sera del 12”. La sera del 12 è quella in cui Pinelli è arrivato in Questura, in via Fatebenefratelli, sul suo motorino, seguendo l’auto in cui viaggiano Calabresi e i suoi e un altro anarchico fermato. La sera del 12 nella questura, dove sono arrivati i primi uomini degli Affari Riservati la cui presenza sarà occultata per molti anni a venire, e dove si trovano gli uomini (donne non ce n’è, in queste tenebre) dell’ufficio politico della polizia, Allegra, Calabresi e gli altri, tutti sono dunque convinti di avere in mano, con Pinelli, se non il correo, l’uomo chiave per scoprire gli attentatori. Basta questa notizia a far crollare come un ridicolo castello di carte false ogni ricostruzione dei tre giorni di Pinelli fermato in questura e del suo trattamento. E della sua defenestrazione.

Prendiamoci una riga bianca. Respiriamo profondo.

“Con ogni probabilità — scrive più avanti Pacini — anche la sera in cui Pinelli cadde dal quarto piano della questura, Russomanno era presente nell’ufficio di Allegra, così come altri funzionari dell’Uar erano certamente all’interno della questura milanese. Circostanza che per oltre quarant’anni mai era venuta alla luce”.

Siamo alla pag.245 di Pacini, al paragrafo “Anna Bolena e il sosia di Valpreda”. E alla figura di Nino Sottosanti, “Nino il Legionario”, “Nino il fascista”, uno dei candidati al ruolo di “sosia di Valpreda”. (Al romanzo tragico della famiglia Sottosanti ho dedicato il mio “Il martire fascista”, Sellerio 2019). Vi ricordo che l’idea di un sosia nasce fra persone che cercano di trovare una spiegazione al (controverso e comunque tutt’altro che decisivo) riconoscimento di Valpreda da parte del tassista Cornelio Rolandi, dunque col proposito di giovare alla difesa di Valpreda. Mezzo secolo dopo, l’idea del sosia è diventata il cavallo di battaglia di chi, al contrario, le si aggrappa per tenere artificialmente in vita una qualche corresponsabilità di Valpreda, sia pure degradato a bombarolo per fare il botto, raggirato e strumentalizzato dal dinamitardo vero che accosta al suo petardo l’esplosivo del massacro.

Scrive infatti Pacini che la tesi del sosia è stata “per anni ritenuta niente più che un grossolano esercizio di dietrologia dei sostenitori dell’innocenza di Valpreda”,

“ma che alcuni elementi venuti di recente alla luce sembrano aver in qualche modo rilanciato. Questa specie di controfigura sarebbe stata proprio Sottosanti…”.

Pacini ne ripercorre i trascorsi, fino al 12 dicembre in cui Sottosanti e Pinelli si incontrano, che Pacini introduce scrivendo: “Da questo momento la vicenda diventa sempre più oscura e ambigua”. Ho detto del mio libro, “La notte che Pinelli”, forte di una documentazione incomparabile con ogni pubblicazione precedente, eppure beffardamente inadeguato alla luce della rivelazione successiva sul ruolo della sporca dozzina degli Affari Riservati che aveva confiscato l’indagine. Benché ci pensi ogni volta di nuovo digrignando i denti, sono però convinto che altre parti del mio libro restino inattaccabili, e in particolare quella sul cosiddetto alibi caduto di Pinelli, e sulla ricostruzione di tutti i suoi movimenti nella giornata fatale del 12 dicembre. Non c’è un solo momento che non sia documentato, di quella giornata.

Pinelli ha fatto il suo turno di notte, di caposquadra alla manovra. Rientra a casa e va a dormire. Verso le undici viene Sottosanti, cui Pinelli vuol dare 15.000 lire come rimborso alla spesa sostenuta per venire a Milano da Piazza Armerina, in Sicilia, dove Sottosanti vive, per testimoniare in favore di un giovane anarchico arrestato per un attentato dimostrativo (ne verrà assolto, ma qui non ci interessa). Licia Pinelli lo riceve, Pino si sveglia e Sottosanti resta a pranzo con loro e le bambine. Dopopranzo escono insieme, Pinelli porta a mano il motorino, passano dal suo bar, prendono il caffè e indugiano un po’, poi Sottosanti va a ritirare l’assegno che Pino gli ha dato, strappandolo dal blocchetto del fondo della Croce Nera per l’assistenza ai compagni in carcere. Pinelli si ferma al bar, fa una partita a carte con avventori abituali (che lo confermeranno, rinvio alla mia ricostruzione, e a quella chiaramente sbagliata della sentenza D’Ambrosio) e verso le 17 li lascia perché deve andare a ritirare la tredicesima prima che l’ufficio, alle 18, chiuda: ha ricevuto il mandato la mattina, ma è rientrato a casa dopo aver fatto la notte. Ritirata la tredicesima, va al circolo della Ghisolfa, vede qualcuno, scrive una lettera (bella, memorabile, un involontario testamento) a un giovanissimo anarchico incarcerato, poi si dirige all’altro circolo, in via Scaldasole, ed è là che Calabresi lo trova e lo invita a seguirlo in questura -una semplice formalità, lo sappiamo che tu non metti le bombe…

Pacini scrive però di “cose che da qui si fanno più oscure e ambigue”, dunque non è persuaso della mia ricostruzione: mi farà piacere discuterne con lui. Scrive, Pacini, che “Pinelli non rivelò tale circostanza /di essere stato con Sottosanti in quel primo pomeriggio/ e fu anche per questa ragione che fu poi trattenuto così a lungo in questura”. Ma non è così. Se si fosse trattato di ricostruire il suo pomeriggio già in quelle prime ore, Pinelli avrebbe riferito almeno di essere andato a ritirare la tredicesima: ma anche di quello non fa parola. Eppure la tredicesima ce l’aveva in tasca, e in questura gliel’hanno fatta depositare, e due giorni dopo sua mamma verrà a ritirarla, perché a casa ne avranno bisogno — si avvicina il Natale. E la polizia non ha né mostra alcuna fretta di interrogare Pinelli, finché, quella sera — Pacini l’ha appena scritto — avrà avuto la confidenza di “Anna Bolena” secondo cui lui è a parte dell’eccidio, e sarà magari per questo che lo si tratterrà “così a lungo”. Per sempre.

Pacini ricapitola i sospetti del tempo sul pomeriggio di Sottosanti e poi scrive:

“Tuttavia, al di là di questi sospetti, era anche evidente l’assenza di una effettiva e tangibile prova che potesse dimostrare la veridicità di un simile complotto /la storia del sosia/, visto che l’unica persona che avrebbe potuto contribuire a fare chiarezza, ossia Pinelli… era deceduta nella notte del 15 dicembre per ragioni mai chiarite durante il suo interrogatorio in questura”.

Quali sono, dunque, i fatti nuovi che ridanno fiato alla tesi su Sottosanti “sosia di Valpreda” — e dunque autore materiale della strage? “Le deposizioni di due estremisti di destra al giudice Salvini… La prima è quella di Edgardo Bonazzi” (l’assassino di Mario Lupo, ventenne operaio, militante di Lotta Continua, a Parma nel 1972) che, quando era stato compagno di carcere di Franco Freda, Pierluigi Concutelli e Nico Azzi, “venne informato che sul taxi di Rolandi era salito un ‘camerata’ che somigliava molto a Valpreda e che era stato infiltrato alcuni mesi prima fra gli anarchici milanesi”. I tre fascisti smentirono. Un altro detenuto avrebbe sentito dire da Ventura che Valpreda era stato giocato da una “controfigura”. Così formulate e con simili fonti le “testimonianze” sembrano piuttosto echi della voce originaria sul sosia di Valpreda.

E quella che Pacini ritiene la testimonianza “più rilevante”, è in realtà la vera origine della voce. Proviene da Augusta Farvo, mitica giornalaia anarchica di piazza Mercanti, la prima a sospettare di Nino Sottosanti, che aveva ospitato a casa sua, che ne aveva diffidato, e dopo la strage e l’incriminazione di Valpreda si era interrogata sull’eventualità che quell’ambiguo personaggio — Sottosanti era ambiguo quanto si può esserlo, vedi il fine Allegra: “…invertito, sbandato, vagabondo, sfrontato, assolutamente amorale…” — fosse stato il terrorista traditore di Valpreda. Più tardi, si accontentò di pensare che potesse essere stato un confidente della polizia (così nella deposizione a D’Ambrosio, 1971).

Pacini cita il questore di Milano Allitto Bonanno nel 1972: “secondo confidenze giunte a questo ufficio, la Farvo ha più volte detto di essere in grado di smascherare Sottosanti, ma finora nulla ha fatto per concretizzare questi sospetti”. E aggiunge che “per inciso, si fa presente che secondo la Farvo l’avv./Marcello/ Gentili avrebbe le prove della colpevolezza di Nino Sottosanti per i fatti del 12 dicembre”. Chi abbia conosciuto Marcello Gentili, e io l’ho conosciuto benissimo, come una persona di rettitudine e coraggio meravigliosi, ride. Per gli altri, esorto a rifletterci. Il sospetto che Nino Sottosanti possa essere stato “il sosia di Valpreda” nasce nell’ambiente dei difensori degli anarchici e dello stesso Valpreda, compreso Gentili, il quale ne avrebbe occultato le prove?

Si capisce che, tutto sapendosi degli orditori del 12 dicembre e della sua preparazione nelle bombe dell’aprile e dell’agosto, e non sapendosi ancora chi abbia materialmente collocato la bomba nella Banca dell’Agricoltura, si tengano d’occhio tutti i candidati. Guido Salvini, nel suo libro del 2019, “La maledizione di Piazza Fontana”, ne fa un ritratto dettagliato che porta all’ordinovista veronese Claudio Bizzarri, evitando cautelarmente di farne il nome (lo fa per lui Gianni Barbacetto). Bizzarri è morto appena un mese prima, quando il libro era in stampa. Altri nomi vengono candidati: Zorzi, Benardelli, Fachini… Non cambia granché.

Quando, in anni recenti, mi sono imbattuto nella romanzesca storia della famiglia paterna di Sottosanti, e ho scritto “Il martire fascista”, dapprincipio mi sono reinterrogato sulla parte avuta da “Nino il fascista” nel 12 dicembre del 1969. Che già prima di allora, e poi dal giorno dopo, era tornato a vivere nella città d’origine dei suoi, Piazza Armerina. (Qui un suo fratello, Fulvio, minore di un anno, era in quel 1969 assessore e vicesindaco del MSI — sarebbe stato sindaco, molto popolare, dal 1993 al 2001, e poi consigliere regionale: è morto, a 92 anni, nel 2021). A Piazza Nino viveva solo, di un impiego da bidello, in una casa più che modesta, noto e ignorato, e vi morì nel 2004. L’idea di quei 35 anni pressoché da clochard vissuti dall’autore del più grave attentato politico dell’Italia repubblicana era fatta per accendere la fantasia. E per spegnere il buonsenso, anche.

Vediamo. Non c’è un solo indizio di rapporti fra Nino Sottosanti, o fra qualcuno degli anarchici milanesi attorno a Valpreda o (non erano gli stessi) attorno a Pinelli, e alcuno degli attori del programma terroristico guidato ed eseguito da Ordine nuovo veneto. In ogni caso: per una trama rocambolesca come l’intenzione di fare di Valpreda il capro espiatorio, di designare Sottosanti (per la sua somiglianza fisica con Valpreda) a esecutore dell’attentato — non prendo nemmeno in considerazione la “doppia bomba”, perché non sono uno scemo né un paranoico grave — e per giunta di includere Pinelli nell’agenda, occorre una sfrenata disposizione alla fantasia. Dunque: 1, Valpreda. E’ a Roma, deve venire a Milano perché è convocato da un giudice. Arriva l’11, il 12 si presenta in tribunale, deve tornarci il 15. Sottosanti, 2. Viene a Milano dalla Sicilia per testimoniare per un giovane anarchico accusato di aver compiuto un attentato dimostrativo. Perché Sottosanti sostituisca Valpreda, puntando sulla somiglianza, bisogna che abbia saputo che Valpreda il 12 dicembre sarebbe stato a Milano, che in quel pomeriggio fosse ammalato e se ne stesse a casa della zia a curarsi, se no avrebbe potuto andare in giro ed essere visto e avere un alibi; che abbia pensato che il vero Valpreda, ballerino zoppicante per il morbo di Bürger (falso, del resto) non avrebbe fatto a piedi un tragitto breve fino alla Banca dell’Agricoltura, ma avrebbe preso un taxi, il cui autista avrebbe poi riconosciuto il vero cliente, Sottosanti, in lui Valpreda. E che, per smania di perfezione cospirativa, il Sottosanti designato sosia avesse fatto combinare, nel giorno in cui avrebbe collocato la bomba, una visita domestica a Pinelli addormentato per aver fatto il turno di notte, e il successivo pranzo con Licia e bambine e il successivo percorso fino al bar, il caffè, la partitina a carte, la riscossione dell’assegno firmato da Pinelli in una banca, la corsa alla prossima banca da far saltare in aria, e il rientro a casa Pulsinelli, a Pero, per poi ripartire all’indomani per la Sicilia. Pinelli, 3. Per essere stato a parte di qualcosa, deve aver concordato con Sottosanti tutta la pantomima del pranzo, il caffè, l’assegno — firmato da lui, dal libretto della Crocenera — in modo che Sottosanti possa dire di essere andato nella banca innocua e poi a casa, e magari deva anche aver convenuto con Sottosanti lo scherzetto di fare le veci di Valpreda…

Bene: ditemi che ci credete, e vi chiederò l’autografo.

“Della stessa cosa /”che Sottosanti fosse riuscito a strumentalizzare gli anarchici milanesi”/ — scrive Pacini — si era forse reso conto Pinelli e fu anche per questa ragione che in questura tacque sul suo incontro con Sottosanti? Attraverso Sottosanti, qualche militante anarchico era stato strumentalmente coinvolto nelle vicende del 12 dicembre 1969?”

Pinelli, proprio perché non era coinvolto in niente, e vedeva allungarsi su sé gli artigli dei suoi interroganti, e i loro saltafossi, si sarà interrogato angosciosamente su qualunque nome, anche quello di Valpreda, anche quello di Sottosanti. Di Valpreda, arrivarono a dirgli che aveva parlato. Di Sottosanti, in realtà, non gli chiesero niente. E se ne tacque, fu perché nessuno gliene chiese, e il libretto d’assegni con la sua firma e la data bastava a rispondere.

Mi fermo qui ora. Con una postilla che dovrà avere un futuro. Pacini, e non solo lui, scrive che Lotta Continua fu l’organizzazione più tenuta d’occhio dagli Affari Riservati, infiltrata eccetera. Nel processo che mi riguardò chiesi che fosse pubblicato qualunque documento segreto sul nostro conto. Per spiegare come mai su un movimento e su persone così “attenzionate” non sia venuta fuori una notizia sull’omicidio Calabresi.

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